Lo stereotipo del migranteUn uomo di colore, scarno, con gli occhi rossi e malato di qualche patologia esotica e che arriva in Italia via mare, in un barcone sovraffollato. Questo è lo stereotipo mediatico del migrante. Ma dal punto di vista sanitario, questa è un’immagine parziale e scorretta. L’associazione culturale Giuseppe Dossetti ha organizzato, lo scorso 24 novembre a Roma, un convegno dal titolo Patologie emergenti e riemergenti. Globalizzazione, migrazione, salute e vaccini. A Roberto Cauda (nella foto sotto), direttore dell’istituto di Clinica delle malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma è stato affidato il compito di chiarire la situazione delle patologie infettive legate all’immigrazione. «Il messaggio fondamentale che voglio dare – dice il professore - è che l’emigrato di per sé non è un individuo a rischio di trasmissione. Forse è più a rischio di contagio».

C’è un reale rischio che si diffondano in modo massiccio malattie portate in Italia da immigrati? Quando parliamo di patologia del migrante ci rivolgiamo in genere ai “viaggi della speranza” via mare.  In realtà il flusso di persone è molto più ampio: non si emigra solo per necessità, a bordo dei barconi. Il primo concetto da tenere presente è perciò la globalizzazione, intesa come mobilità di persone sul piano planetario. Se non ci fossero questi spostamenti le malattie sarebbero destinate a rimanere in un’area. Il rischio vero però non è legato solo all’immigrazione. Esistono effetti climatici che permettono ad alcuni vettori di prosperare in aree dove prima non c’erano.

Roberto CaudaDal punto di vista immunologico, in che condizioni si trova l’immigrato medio? Contando che nelle migrazioni Sud- Nord si coinvolge spesso il soggetto giovane, in grado di entrare nel mondo del lavoro, la possibilità che sia affetto da malattie virali, le più pericolose, è abbastanza remoto.

Una volta in Italia, quali sono le malattie che colpiscono maggiormente gli immigrati? L’85-90% delle patologie riscontrate sono simili a quelle dei pazienti italiani. Influenza, raffreddore, traumatismi, malattie cardiovascolari: quadri analoghi a quelli dei lavoratori italiani. La differenza tra il magùt lombardo e il muratore senegalese, da questo punto di vista, non esiste. La reazione del sistema immunitario non varia a seconda della provenienza. È molto più rilevante l’età anagrafica.

E il restante 10 per cento? Sono soggetti che provengono da aree del mondo dove ci sono situazioni di endemia; possono essere affetti da Hiv, da tubercolosi, da malaria, da parassitosi intestinale. È chiaro che sono forme che meritano il massimo dell’attenzione. Gli immigrati non sono tutti sani, ma sottolineo che non c’è il rischio che trasmettano malattie alla popolazione residente, proprio perché l’impatto di queste forme è trascurabile rispetto a quanto già presente in Italia.

Di cosa si ammalano invece in Italia? Soffrono soprattutto di affezioni respiratorie acute. Ciò è dovuto alle condizioni e all’ambiente in cui si trovano a vivere. Anche la condotta personale ha una certa rilevanza, per esempio nelle malattie sessualmente trasmissibili. Ma non esistono certo minacce epidemiche. Il rischio ci sarebbe se si sottovalutasse il problema della cura sanitaria degli immigrati. Anche perché le relazioni tra il Sistema sanitario nazionale e gli immigrati non sono così pacifici.

Il reato di clandestinità ha suscitato una forte reazione della comunità scientifica. Si temeva che i clandestini, intimoriti dalla legge, potessero smettere di usufruire del Sistema sanitario nazionale, innalzando così il pericolo di contagi. Certo. Non voglio però entrare nel merito di una dialettica politica. Mi limito a dire che, per esempio, una malattia come la tubercolosi di per sé non è grave. Deve essere solo ben curata. Nel caso degli immigrati ciò a volte non accade, ma non si può limitare il problema solamente al reato di clandestinità. Bisogna ricordare che provengono da Paesi con culture e tradizioni diverse. Non si può esaurire tutto nel dibattito politico. Bisogna anche oltrepassare le barriere linguistico-culturali che impediscono una comunicazione diretta e chiara.

Crede che i media abbiano un atteggiamento corretto quando si parla di salute? Nella primavera del 2003 fu dichiarata l’emergenza di una malattia molto grave, la Sars, con una mortalità del 10% (per intenderci, quella dell’influenza A ha una mortalità dello 0,00029%). Poteva essere l’inizio di una pandemia, soprattutto a marzo. Poi ad aprile la notizia è stata pressoché seppellita perché era entrata nel vivo la guerra in Iraq. È riapparsa solo a maggio-giugno quando fu dichiarato che l’epidemia era stata sventata. I media fanno il loro lavoro: seguono interessi e umori dell’opinione pubblica, ma non sempre le informazioni sono del tutto corrette.