La concezione tradizionale solo retributiva della pena, secondo cui più grave è la ferita più pesante deve essere la punizione, non costituisce “un progetto”, né per la vittima, né per l’autore del reato. La sperimentazione Percorsi di prossimità alle vittime dei reati e ad altre persone offese, i cui risultati sono stati presentati in un convegno in Università Cattolica, è nata proprio per colmare il vuoto di assistenza alle persone offese e diffondere una reale cultura della sicurezza, fondata sulla condivisione delle regole e non sulla creazione di un nemico.

«La concezione di sicurezza che impone l’esistenza di un nemico ha spesso costituito un alibi per le istituzioni per non adottare quegli strumenti di prevenzione primaria efficaci che, però, costano e non portano consenso elettorale», sostiene Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale della Cattolica. «L’illusione della pena retributiva deve finire. Il reato non può essere cancellato. Sul reato si può solo lavorare, si può solo cercare di capire come “gettare un ponte” sulle fratture delle vittime, riconoscendole nella loro gravità». Questa è  la finalità del progetto che Claudia Mazzucato, ricercatore di Diritto penale alla sede piacentina della Cattolica, spiega con queste parole: «Occuparsi delle persone offese, prendendo le distanze da chi “ostenta le vittime” per creare un nemico e giustificare una maggiore repressione».tavolo_vittime Questo obiettivo va perseguito anche tenendo conto delle indicazioni date dai massimi organismi internazionali, quali l’Onu, il Consiglio d’Europa e l’Unione Europea, nei cui documenti non viene mai richiesto come misura di favore per le vittime di reato una pena da infliggere al reo o un inasprimento sanzionatorio. «La vittima è semplicemente “qualcuno che ha sofferto fisicamente, materialmente o psicologicamente per qualcosa che non sarebbe dovuta accadere”. La sofferenza subìta a causa di un’ingiustizia, in quanto esperienza umana universale, può unire», dice la Mazzucato.

Gli interventi condotti nel corso della sperimentazione non hanno riguardato direttamente soggetti coinvolti in procedimenti penali, ma sono serviti a diffondere un metodo e una ‘cultura delle vittime’ e della giustizia ripartiva, applicabile ad ogni livello, per conflitti familiari, sociali, reati comuni, ma anche per reati gravissimi.

A Cremona, in collaborazione con l’Ufficio Sicurezza Urbana del Comune, è stata compiuta un’opera di sensibilizzazione di un gruppo di adolescenti anche grazie a incontri con alcune vittime di reato, poi sono stati coinvolti i genitori sul tema della giustizia ripartiva. Si è mostrato come intorno a una persona offesa si può stringere l’intera comunità, dai cittadini di un quartiere a tutte le autorità della città, riunendo il territorio a tutti i livelli. Il successo dell’iniziativa è testimoniato anche da Roberto Ferrari, un vigile di quartiere che riconosce le potenzialità di una giustizia gestita attraverso l’incontro diretto nella società civile: «A Cremona esiste ancora lo spirito di una piccola comunità. Spesso il nostro intervento, come vigili di quartiere, è peggiorativo rispetto alle situazioni pregresse: aggiunge un gradino all’escalation del conflitto. A livello di prevenzione generale dei reati, fanno molto di più un buon maestro elementare o il prete dell’oratorio, che non un poliziotto. La disistima sociale della comunità svolge una funzione di prevenzione più forte di quanto non passano fare le politiche repressive».

A Milano, grazie al Progetto, si è dato vita a un articolato intervento di mediazione scolastica, coinvolgendo insegnanti, genitori e studenti di una scuola media in un dialogo costruttivo attorno ad alcune esperienze di conflitto e ingiustizia create e subite dagli alunni, come descritto dalla Dirigente scolastica Elena Borgnino. A Bergamo il confronto è avvenuto direttamente tra vittime e colpevoli di reati diversi, i quali hanno avuto modo di confrontarsi all’interno di un vero e proprio community circle, giungendo alla conclusione che esistono possibilità effettive di riparazione, almeno simbolica, delle conseguenze del reato. Il prof. Eusebi conferma: «Per la vittima, il massimo riconoscimento dell’offesa subìta è quello che viene dall’autore del reato stesso. Nulla rafforza l’autorevolezza di una norma violata, più che la scelta di chi decide di rientrare nella società, rispettando quella stessa regola». E infatti il progetto ha saputo attivare risorse locali – ha spiegato Giancarlo Tamanza, docente di Psicologia clinica in Cattolica - nonché rafforzare i legami sociali e di comunità, anche attraverso inedite dinamiche anche affettive che rendono una società buona da viverci, come ha ricordato Eugenia Scabini, preside della facoltà di Psicologia. Un giudizio positivo condiviso dagli intervenuti alla tavola rotonda che ne hanno auspicato lo sviluppo a livello delle politiche locali, per voce di Valeria Borgese, e della politiche penitenziarie, come hanno indicato Milena Cassano, dell’Ufficio dell’Esecuzione Penale Esterna, e Giovanna Di Rosa, magistrato di sorveglianza. Una «via molto promettente» - ha concluso Gabrio Forti, direttore dell’Istituto giuridico della Cattolica - da «sviluppare ulteriormente» in una pluralità di direzioni, giungendo se possibile fino alla progressiva elaborazione di «vere e proprie linee guida (almeno regionali) sull’assistenza e il sostegno alle vittime dei reati mediante programmi di restorative justice». Per questo, diffondere la cultura della mediazione penale e della giustizia ripartiva può rappresentare, nello stesso tempo, un sostegno adeguato alle vittime del reato e un possibile progetto di reintegrazione e recupero per gli autori dei reati stessi.