La strada per sconfiggere la sclerosi sistemica, detta anche sclerodermia a causa dell’indurimento della pelle dei pazienti, passa per le cellule B del sistema immunitario, finora considerate “spettatrici innocenti”, come dice il reumatologo dell’Università Cattolica di Roma Gianfranco Ferraccioli, fra gli autori dell’importante ricerca appena pubblicata su Arthritis Research & Therapy. Una ricerca cui hanno fattivamente collaborato Silvia Bosello, Maria De Santis, Gina Lama, Cristina Spanò, Cristiana Angelucci, Barbara Tolusso e Gigliola Sica, direttore dell’Istituto di Istologia ed embriologia dell’Università Cattolica di Roma.

«Ciò che rende il nostro lavoro originale - spiega Ferraccioli, direttore dell’UO di Reumatologia della Cattolica di Roma presso il Complesso Integrato Columbus -, è che fa chiarezza sulle caratteristiche di una malattia molto complessa, come tutte le malattie autoimmuni, e i cui pazienti spesso non hanno altra prospettiva che quella di doversi sottoporre a prolungati cicli di terapie immunosoppressive citotossiche se non addirittura a un intervento terapeutico di trapianto di midollo».

Questa patologia, inoltre, coinvolge spesso più organi ed è gravata da un’alta possibilità di insuccesso terapeutico con le terapie convenzionali.
La sclerodermia si caratterizza per una fibrosi – ispessimento dei tessuti – dovuta all’accumulo di alcune proteine di matrice che non vengono riassorbite e che, rendendo i tessuti sempre meno elastici e più duri, alterano progressivamente la funzione degli organi. Se ad esempio viene colpito il polmone, gli scambi di ossigeno sono resi sempre più difficili a livello degli alveoli; se la malattia colpisce il cuore, questo si indurisce e pompa in maniera inefficiente il sangue; se colpisce l’intestino, questo si svuota con difficoltà. Un effetto molto comune è quello di ispessimento e indurimento della pelle, che assume l’aspetto caratteristico del cuoio.

«Vi sono due forme di malattia - chiarisce Ferraccioli -. La prima, e più frequente, riguarda l’80% dei pazienti: è una forma detta limitata, con una progressione più lenta e meno aggressiva. La seconda variante, definita diffusa, che colpisce l’ultimo quinto dei pazienti, è più aggressiva e interessa pazienti più giovani, che normalmente vengono trattati con alte dosi di cortisone e con farmaci antitumorali. Questi farmaci hanno però importanti effetti collaterali, come l’infertilità o diverse complicanze vescicali e polmonari. E sfortunatamente, come dimostrano gli ultimi trial clinici, hanno anche un’efficacia limitata».

Nello studio pubblicato, che riguarda solo nove pazienti – anche se altri stanno seguendo la stessa cura – il gruppo di Ferraccioli ha individuato l’obiettivo terapeutico che potrebbe cambiare le sorti di molti di questi pazienti colpiti dalla forma più grave della malattia.

Tre sono i protagonisti che intervengono nella genesi di questa malattia: i fibroblasti, le cellule che producono il tessuto di sostegno di ogni apparato, che sono i responsabili della produzione delle proteine che induriscono gli organi e la pelle. Poi ci sono le cellule endoteliali, quelle che rivestono l’interno dei vasi e che provocano fenomeni di occlusione molto pericolosi. E infine le cellule del sistema immunitario, che sono proprio quelle che rispondono in maniera eccessiva e che causano la malattia autoimmune.

«Noi con l’importante contributo dell’Istituto di Istologia - ricorda ancora il reumatologia della Cattolica, abbiamo agito proprio sulle cellule B che, in caso di patologia, producono gli anticorpi contro costituenti dell’organismo e le abbiamo eliminate con un farmaco biologico, che, associato a una dose di immunosoppressore molto bassa, ha prodotto risultati migliori rispetto ai trattamenti tradizionali che normalmente causano tanti effetti collaterali».

Il gruppo di ricercatori della Cattolica, nonostante il numero limitato di pazienti studiati, è riuscito a individuare una cosiddetta finestra di opportunità terapeutica: se i farmaci vengono utilizzati entro 2-3 anni dall’esordio della malattia il risultato è decisamente importante.

«Come suggerisce l’editoriale della rivista che accompagnava e lodava il nostro articolo - conclude Ferraccioli -, stiamo lavorando su più pazienti per confermare i nostri primi promettenti risultati. Ma c’è una cosa che ci sembra importante. Mentre si riteneva che a determinare il successo della strategia terapeutica fosse la presenza della cellula bersaglio a livello degli organi, noi abbiamo dimostrato che l’effetto della terapia è sistemico: in altre parole, possiamo migliorare il decorso della malattia, modulando il sistema immunitario in tutto l’organismo senza dover agire a livello di singolo organo».