Il problema della Giustizia a partire dalla cinematografia: il quarto appuntamento del ciclo promosso dal Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale (Csgp) ha preso lo spunto da alcuni frammenti cinematografici, tratti da film assai noti, che hanno rappresentato lo sfondo per mettere correttamente a fuoco le eterne questioni del male e della violenza. Da dove viene il male? Quali ragioni e quali parole accompagnano il compimento di gesti che appaiono incomprensibili? Sono le domande da cui è partito l’incontro Cosmologie violente e frammenti cinematografici. Vite criminali tra realtà e fiction, nell’ambito del ciclo “Giustizia e Letteratura”, che si è tenuto lo scorso 23 febbraio nell’aula Gemelli dell’Università Cattolica di Milano.

Brani di film come Pulp Fiction, Non è un paese per vecchi e The Departed hanno permesso ad Adolfo Ceretti, docente di Criminologia all’Università di Milano-Bicocca, di illustrare efficacemente la propria teoria criminologica e la lunga esperienza a contatto con le “vite criminali”, prima in qualità di Giudice presso il Tribunale dei Minorenni di Milano, ora come mediatore penale. Pochi secondi e alcune, a volte spiazzanti, sequenze visive. «Non esiste un gesto violento, un’aggressione fisica, per quanto “folle” e cruenta, che non implichi una cosmologia», ha affermato. Un concetto che designa quell’insieme di elementi riflessivo-pensanti, frutto di esperienze passate e di figure significative, che hanno segnato la vita della persona, mediante i quali gli uomini si rappresentano il mondo e danno un senso alle loro azioni, siano esse nonviolente o criminali. L’ingresso in queste “cosmologie” - zone di azioni e pensieri violenti mai completamente rischiarabili – è avvenuto attraverso la “visibilizzazione dell’invisibile”, resa possibile tanto dalla finzione cinematografica, quanto dalle “interviste partecipative” condotte dal professor Ceretti stesso con alcuni detenuti condannati in via definitiva per delitti violenti di eccezionale gravità.

L’addentrarsi nelle “cosmologie violente” permette di comprendere che anche il crimine più efferato e brutale può essere sottratto alla sfera della incomprensibilità attraverso il racconto e l'ascolto del suo stesso autore, della sua storia irripetibile e singolare, dei significati morali e simbolici che il colpevole, il criminale è stato capace di attribuirvi: in quel gesto, di cui poi il processo penale sarà chiamato a occuparsi, confluisce tutta la vita del suo autore, che non si esaurisce però nella sola azione illuminata dal “lampione” del diritto penale.

Il penalista della Bicocca ha sottolineato la necessità di studiare il mondo simbolico degli autori di gesti violenti, che si sostanzia in quel «processo interpretativo-attivo mediante il quale gli attori costruiscono le proprie azioni». Lo studio criminologico deve saper cogliere l’interpretazione del significato che chi studia dà a quelle azioni: «Il ricercatore non deve cadere nella trappola di collocare la propria interpretazione a un “livello superiore” rispetto a quello di coloro che ne fanno concretamente esperienza: deve penetrare la realtà dell'attore e guardarla dal suo punto di osservazione, ricorrendo alle categorie che questi usa per risalire ai significati che attribuisce al suo mondo». In altre parole, deve sforzarsi di ricongiungere gesto e autore, ricomponendo così l’unità tra ciò che è accaduto e i pensieri che ne sono all’origine.

Attraverso un’intensa riflessione, si è potuto constatare come l’apparizione del gesto violento è sempre, anche nei soggetti comunemente definiti “psicopatici”, il risultato di una storia personale e di una complessa “cosmologia” simbolica, che impongono la violenza come unico esito “coerente” di una “forma di vita” e di un modo di vedere gli altri, che in quel gesto precipita e si condensa. L'attore violento, secondo Ceretti, non è tale per una carente o difettosa assimilazione dei modelli sociali prevalenti; in realtà egli lo diviene a seguito dell’interiorizzazione di modelli normativi diversi da quelli “civili”, modelli che autorizzano o addirittura impongono la gestione delle situazioni conflittuali tramite la violenza.

Dal dibattito è scaturita una discussione notevolmente euristica su istituti importantissimi del diritto penale, quali l’imputabilità e la funzione della pena, che devono fare i conti con quella sfera di interpretazioni e pensieri (molto meno distanti da una supposta “normalità non violenta” di quanto comunemente non si creda) che conducono le persone alla violenza; fino a giungere a una rivalutazione del ruolo dello stesso processo penale nella sfera interpretativa e simbolica propria del soggetto che ha commesso un atto di violenza.