Hong Kong, Iran, Libano, Bolivia, Cile, Venezuela. Sono alcuni dei Paesi in cui ribolle la protesta di piazza. C’è chi dice che è solo un effetto ottico dovuto alla contemporaneità legata alla narrazione mediatica che ci fa intravedere un filo rosso tra le varie rivolte. E sicuramente c’è del vero. Ma c’è anche chi riesce a leggere un motivo che collega le diverse piazze, come suggerisce il professor Fausto Colombo, docente di Media e politica alla facoltà di Scienze politiche e sociali e direttore del Dipartimento di scienze della comunicazione e dello spettacolo dell’Università Cattolica.

«I contesti sono molto diversi ma sono accomunati da almeno tre elementi» fa notare il professore. «Il primo è la generazione di chi protesta. Io credo di non ricordare altri momenti di protesta globale con un coinvolgimento giovanile di questo tipo dal ’68. Il secondo elemento è che alla base di questi fenomeni ci sono certamente rivendicazioni di diritti ma c’è soprattutto un contesto di crescente disuguaglianza. Questo vale per Hong Kong dove il tema non è solo quello dei diritti civili ma è anche un problema di crescente disuguaglianza, legata al capitalismo dell’ex colonia britannica e alla pressione delle grandi compagnie. E questo vale anche in molti Paesi del Sudamerica e in diverse piazze».

E il terzo elemento? «È legato ai media: come la televisione ha svolto un ruolo fondamentale nel ’68, così i social media, il web rendono possibili processi di riconoscimento reciproco: a protestare non si è soli, il senso di ingiustizia non è solo della propria identità collettiva ma di una identità più vasta».

Che cosa significa? «Ovviamente i movimenti sono tutti diversi, non è che cinquant’anni dopo c’è lo stesso fenomeno. Però un forte dato è il ruolo dei giovani nelle società contemporanee: se per quelli della società fluente del ’68 prevaleva un diffuso senso di speranza, qui mi sembra che prevalga un drammatico senso di difesa disperata, il senso del dramma di un’esistenza sociale e anche un po’ il rifiuto di una logica economicistica che si è dimenticata di dare un senso all’esistenza».

Qual è l’elemento che li accomuna? «C’è un forte senso di soggettività che ha la sensazione che i modelli di sviluppo, molto differenti gli uni dagli altri nelle società contemporanee, non costruiscano futuro. L’elemento drammatico comune è la paura di non avere un futuro».

Non è un fenomeno isolato… «Questa cosa si vede benissimo nei movimenti pro-clima, dove protesta una generazione rappresentata da Greta Thunberg, che sta rivendicando di aver diritto a un futuro. Dunque anche dentro questa protesta c’è un elemento generazionale».
 
Qual è il ruolo dei media in tutto ciò? «Tutte le volte che ci sono i media di mezzo l’effetto contagio è possibile, però c’è anche un effetto rispecchiamento: non ci deve essere per forza una viralità nel senso passivo del termine ma anche un rispecchiamento che è incentivazione e riconoscimento. Se gli altri protestano, perché io no? Magari anche per rivendicare cose diverse».

Quindi c’è un filo che lega queste piazze del mondo? «Dobbiamo guardare con grande interesse al fatto che i giovani cerchino di rientrare nel motore della storia. La storia non è finita. La questione del futuro è ancora in agenda come il luogo cruciale e i modelli di sviluppo che si sono affermati dopo il reaganismo, il tatcherismo e la caduta del muro possono essere ancora ripensati, non sono universalmente ovvi. È interessante che in un’epoca di presunto globalismo i contesti siano così diversi e i giovani comunque continuino a dire che c’è qualcosa che non va».

Forse parlano tutti il linguaggio della rete… Un certo stile di comunicazione è condiviso: magari dicono cose diverse i giovani nelle diverse parti del mondo ma tendono a comunicare nello stesso modo. Ma una cosa importante va sottolineata: questi ragazzi cresciuti con i social media, di cui diciamo che sono intermediati e non fanno più l’esperienza del mondo, fanno una cosa concreta: scendono in piazza, si mettono a rischio, qualche volta combattono. Si mettono in gioco e sono tutt’altro che una generazione controllata dalle piattaforme».

Le piazze delle “Sardine” possono essere accomunate alle altre del mondo? «È un fenomeno interessante e originale ma non paragonabile agli altri perché per ora è una realtà fortemente testimoniale e culturale: è un sistema mite e non è una protesta contro il governo ma contro certi discorsi e certi toni. Non propone soluzioni, rivendica dei principi. Le altre piazze sono tutte omologate da una protesta contro il governo, invece qui è per ora solo una protesta di principio. È una richiesta di riflessione».