di Agostino Giovagnoli *

La situazione di Hong Kong è molto triste e peggiora di ora in ora. Ma questo progressivo peggioramento era prevedibile e da tempo le voci più sagge della città, in primis quella del cardinal John Tong Hon, hanno esortato i giovani ad abbandonare la strada della protesta violenta. Il loro malessere e il loro disagio sono più che comprensibili e verso di loro è impossibile non provare simpatia. Nel 1997, quanto l’allora colonia britannica passò alla Cina, tutto sembrava molto diverso.  Allora Hong Kong era la seconda area del mondo per reddito pro capite, settima per quantità di riserve valutarie straniere e terza per esportazione di indumenti.

La formula “un paese due sistemi”, creata da Deng Xiaoping, fotografò una situazione che sembrava destinata a prolungarsi: se Hong Kong fosse rimasta uno spazio di incontro tra crescita cinese e sistemi occidentali, non sarebbe convenuto a nessuno mettere in crisi questa sintesi originale tra Oriente e Occidente. In ogni caso, il 2047 – data fissata per il suo definitivo passaggio sotto l’autorità di Pechino – appariva molto lontano. Ora invece sono molte le megalopoli e i porti cinesi in grado di fare concorrenza ad Hong Kong, alcuni anche molto vicini al “Porto dei profumi”. Qui le case sono molto care, le possibilità di lavoro sono più ridotte, le prospettive di sviluppo si sono molto ristrette. E il 2047 - quando il controllo cinese sulla vita individuale e collettiva degli abitanti di Hong Kong diverrà diretto - appare molto più vicino: i giovani che oggi protestano vivranno questo passaggio e pure i loro figli.
  
È la mancanza di prospettive a rendere così violenta la protesta. Ma la rabbia non è una buona consigliera. La durezza dello scontro ha creato una ferita profonda nel tessuto di Hong Kong, suscitando una contrapposizione insanabile tra gli studenti e la polizia che da mesi si fronteggiano in un conflitto sempre più esasperato. Intanto la governatrice Carrie Lam è praticamente esautorata mentre da Pechino giungono moniti sempre più duri. C’è chi incita gli studenti a proseguire la lotta ad oltranza, compresi leader religiosi ed esponenti della comunità cattolica. Ma tutto questo spinge gli studenti in un cul de sac. Trasformare l’università in una trincea di resistenza e in uno spazio da difendere a oltranza li ha portati a rinchiudersi in un’area che la polizia ha avuto buon gioco a mettere sotto assedio. Questo sbocco è emblematico di un più complessivo esito delle proteste di questi mesi. C’è chi dice che la radicalizzazione della protesta sia stata favorita da agenti provocatori. Di certo ora la situazione è più cupa e difficile di quando è iniziato tutto, dopo la presentazione della legge – poi ritirata – sull’estradizione. 

È necessario ora avviare una riflessione più lucida e un’analisi più profonda. A chi giova tutto questo? Forse a nessuno e soprattutto non giova agli studenti che protestano e agli abitanti di Hong Kong nel loro complesso. Le prese di posizione internazionali sono condivisibili se mirano a ottenere clemenza per i giovani coinvolti nelle proteste di questi mesi. Ma diventano discutibili se vogliono suggerire che l’Occidente possa o voglia giocare un ruolo vero in questa partita. Il futuro di Hong Kong è la Cina non l’Occidente. 

Molti che soffiano sul fuoco sembrano agire come se non fosse così. In questo modo però ingannano i giovani che protestano e non li aiutano a costruire un futuro migliore dentro un orizzonte che lo stesso Occidente ha contribuito a costruire, che si è ormai consolidato e che appare oggi segnato. C’è chi parla di una nuova guerra fredda. C’è da augurarsi che non sia così, per moltissimi motivi. Anche per non rivedere le scene che si sono viste durante la prima guerra fredda, quando la propaganda occidentale denunciava e condannava quanto avveniva nell’altro campo, mentre nessuno poteva o voleva fare nulla per aiutare chi si trovava in situazioni tanto drammatiche. 

* docente di Storia contemporanea, facoltà di Lettere e filosofia, campus di Milano