Si fa scuola in Rete. Si lavora smart. Si acquista on line. Perfino il tribunale è diventato virtuale. L'emergenza coronavirus ha sfidato la quotidianità, chiudendoci nelle nostre case ed accelerando la "virtualizzazione" delle nostre vite (che a dire il vero ci sembravano già molto connesse). Stiamo vivendo una nuova rivoluzione digitale? Lo abbiamo chiesto al professor Piermarco Aroldi, docente di Media e cultura dell’infanzia della facoltà di Scienze della Formazione, campus di Piacenza. «Non credo, anche perché esperienza on line e off line sono ormai pienamente integrate, almeno dal punto di vista delle potenzialità tecnologiche e dell’attitudine diffusa a passare dall’una all’altra, quasi senza soluzione di continuità».

L’emergenza Covid-19 ha però cambiato qualcosa… «La novità sta nel fatto che, ponendo drastiche limitazioni alle nostre possibilità di interazione off line (spostarsi, incontrarsi, studiare, lavorare e consumare in contesti fisici e presenziali), ha potenziato la dimensione on line, traslocandovi la possibilità di continuare una qualche forma di normalità».

Cosa comporta questo spostamento? «Questa situazione inedita comporta due conseguenze: la prima è che la connessione alla Rete, e la sua qualità in termini di facilità di accesso e ampiezza di banda, diventano una questione di primaria importanza, perché da essa dipendono un’infinità di azioni e relazioni quotidiane altrimenti impossibili. La seconda è che ci accorgiamo con particolare evidenza dei molti limiti che caratterizzano la nostra esperienza della Rete: limiti infrastrutturali, di competenze, di capacità storica di governare tempestivamente i processi di innovazione. Come ogni risorsa preziosa in tempi di crisi, anche Internet e le piattaforme digitali, messi sotto stress, rivelano le loro (e le nostre) debolezze».

La Rete è quindi “amica” senza riserve? «È una risorsa preziosa per molti aspetti distribuita in modo diseguale e squilibrato; nel nostro contesto permangono molte forme di “digital divide” a carattere territoriale, generazionale ed economico. Non tutti hanno le stesse possibilità di accesso o le stesse competenze d’uso. Da alleata preziosa, dunque, la Rete può trasformarsi in un ostacolo. Basti pensare alla difficoltà di seguire una lezione on line dipendendo da una connessione scarsa o discontinua, o senza avere i device adeguati, o mancando delle competenze necessarie. Alcuni comparti della nostra società, inoltre, sono rimasti particolarmente indietro e fanno fatica a sfruttare appieno le potenzialità di Internet per surrogare alla mancanza delle relazioni in presenza: penso ancora, in particolare, alla scuola. Anche in questo caso, diventa ancora più evidente ciò che sappiamo già, ma talvolta sembra ci si ostini a non riconoscere: che il digital divide si traduce facilmente in una forma di esclusione sociale e in un deficit di cittadinanza».

Generazioni a confronto, in quest'epoca di virtuale estremo: il digital divide come incide? «Quello generazionale è un tipo particolarmente interessante di divide digitale. Da una parte, è evidente che a rischiare l’esclusione siano le persone più anziane e, tra queste, in modo particolare, quelle più fragili o isolate. D’altra parte, sarebbe sbagliato pensare che i più giovani siano automaticamente inclusi digitalmente in virtù della data di nascita; anche in questo caso ci sono disuguaglianze importanti e alcuni fenomeni “di ritorno”. Per la maggior parte degli adolescenti, per esempio, l’accesso alla Rete avviene attraverso uno smartphone: un device personale fortemente “naturalizzato”, che richiede competenze d’uso relativamente ridotte, ma consente anche una fruizione limitata delle risorse online. Questa consuetudine, inoltre, si accompagna spesso a una minore familiarità con le procedure ancora necessarie, per esempio, per sfruttare al massimo i software in dotazione sui PC, o per operare sui parametri di base del loro hardware. Probabilmente la generazione di coloro che hanno cominciato a usare pc e Internet a cavallo tra gli anni Novanta e il nuovo millennio, anche senza essere dei cosiddetti “smanettoni”, ha sviluppato competenze digitali più ampie di quelle di cui sono dotati gli attuali adolescenti».   

Quali sono le conseguenze di questa nostra vita trascorsa sui social network sulle relazioni in genere? «Di norma, i social network alimentano, sostengono e ampliano le nostre relazioni face to face, non le sostituiscono. Ce ne accorgiamo con evidenza ancora maggiore proprio in questo contesto di emergenza, quando queste ultime vengono meno e non ci basta surrogarle con quelle mediate tecnologicamente: abbiamo bisogno di vicinanza, di abbracci, di condividere tempi e spazi, e una chat su WhatsApp aiuta a resistere, ma non è la stessa cosa. D’altra parte, i social network sembrano rivelare in queste circostanze anche un aspetto parassitario: si “nutrono” della nostra vita quotidiana, ma quando quest’ultima viene sospesa o congelata, anch’essi rischiano di ammutolire. Non si può continuare a condividere selfie dal divano di casa. Non a caso, le pratiche “social” più interessanti di questi giorni sono, al contrario, quelle capaci di aprire una prospettiva in questo orizzonte claustrofobico, di condividere una speranza, di esprimere una prossimità».