«La lingua è come un capo di guardaroba a disposizione di tutti, ma bisogna saperla indossare». Usa questa metafora il professor Michele Colombo per spiegare l’allarme che oltre 600 docenti universitari hanno inviato al Governo e al Parlamento, chiedendo interventi urgenti per porre rimedio alle lacune degli studenti nell’uso dell’italiano. Per il ricercatore di Linguistica italiana alla facoltà di Lettere e filosofia nelle sedi di Milano e Brescia, tra i firmatari della lettera, siamo di fronte a problemi di registro e di lessico.
Professore, a seconda di come si guarda, questa lettera è un grido di dolore ma anche un’offerta di proposte concrete. «Sì. I giornali hanno sottolineato l’aspetto della lamentazione per la difficoltà degli studenti a scrivere in italiano, mentre la lettera è molto più incentrata sulla proposta di alcune possibili linee di azione per risolvere un problema che non è semplicemente dovuto a una generica degenerazione dei tempi moderni ma che va ricondotto a importanti mutazioni della nostra società nel suo insieme. E nella scuola nello specifico».
Veniamo subito alla pars costruens, allora. Una volta fotografato il problema come si può intervenire? «Sono tra i firmatari della lettera proprio perché ritengo che in particolare due delle proposte che vi vengono avanzate sono condivisibili. Fornire, all’interno delle indicazioni nazionali che guidano l’agire degli insegnanti nei diversi gradi scolastici, il richiamo forte a dare grande rilievo alla cognizione delle competenze di base. Questo non solo per l’italiano, ma anche per la matematica e le scienze».
Cos’è cambiato rispetto al passato? «Il ventaglio di capacità e nozioni che viene richiesto agli studenti per certi versi è più ampio. Basti pensare a quanto è fondamentale ormai il possesso di una lingua straniera o alla necessità di essere pratici delle nuove tecnologie. In questa situazione è necessario individuare quali sono i fondamenti e puntare su di essi. Una scuola che pretendesse di introdurre lo studente a tutte le sfaccettature delle materie fallirebbe il proprio obiettivo. Non è possibile essere competenti di tutto. E questo è una ragionamento promosso già da qualche anno dall’Accademia dei Lincei che ha varato un programma per la nuova didattica nella scuola, basato proprio sulle competenze fondamentali».
Ad oggi la bestia nera degli studenti resta il congiuntivo? «No, tra i problemi più rilevanti c’è il lessico. Perché se si dice venghi al posto di venga, il classico congiuntivo di fantozziana memoria, è un errore che fa sorridere ma che è molto meno grave rispetto al non riuscire a capire alcune parole della conversazione o del discorso di tipo elevato. Recentemente mi è stato riferito l’episodio di uno studente di un liceo classico, uno studente annoverato tra quelli bravi, che non conosceva il significato della parola cingere».
Parola che oltre tutto viene spesso fuori nelle versioni dal latino, ad esempio cingere le armi. «Difatti il contesto era quello. Il professor Luca Serianni mi parlava di una sua collega che, insegnando latino, faceva svolgere delle versioni senza vocabolario e si è accorta che il problema di quel suo studente non era la desinenza del verbo latino, ma il fatto che non conosceva cingere in italiano. Che una persona non conosca parole come impellente, sicumera, succinto è grave perché la esclude da tutto un ambito di discussione, di comunicazione di idee, molto più che se commettesse un errore di ortografia o usasse a sproposito un congiuntivo.
Ma il problema non è solo il lessico… «L’altra questione è il registro. Molti italiani governano solo quello colloquiale. Non sono in grado di interloquire a livello formale in contesti nei quali sia necessario un italiano sorvegliato, non quello della semplice comunicazione tra amici. Bisogna proporre non tanto un modello di correttezza linguistica ma di ricchezza linguistica. La capacità di muoversi in diversi ambiti con padronanza. Non uniformità, ma versatilità. Se si va in spiaggia si indossa il costume, se si gioca a calcio si portano i calzoncini corti, se si va alla prima della Scala bisogna usare un vestito di tutt’altro genere. L’ideale è avere persone che abbiano a disposizione un armadio pieno di vestiti diversi. Se nel proprio bagaglio linguistico qualcuno ha solo uno o due vestiti, allora è un problema».
Professore, lei tiene anche un laboratorio di scrittura alla facoltà di Scienze linguistiche nella sede di Brescia. La prima palestra per una scrittura corretta è una intensa lettura. A che punto siamo? «Senz’altro la lettura è importante. Il laboratorio introduce a un genere di scrittura speciale come quella accademica. Per gli studenti che non hanno ancora una grande dimestichezza con la saggistica e alcune caratteristiche più specifiche, che vanno apprese esplicitamente, come la citazione bibliografica. Se il legame tra buona lettura e buona scrittura è innegabile, è anche tautologico: chi legge tanto è una persona colta, che tendenzialmente ha una sensibilità linguistica spiccata. E questo si riversa nel suo modo di scrivere. Ma pure la presenza di qualcuno che corregge e guida lo studente nella sua pratica di scrittura è fondamentale. Io stesso ricordo di aver imparato tanto nella scrittura della tesi di laurea e questo lo devo al professore che allora mi ha guidato nel mio lavoro».