di Maria Teresa Zanola *

C’è voluto un calciatore famoso e un fatto di cronaca, che sa di scandalo, per portare all’attenzione di tutti una certificazione linguistica fin qui conosciuta soprattutto da chi la ricercava per necessità professionali o di studio, o per definire la propria posizione civile in Italia.

Di fatto è la carta di ingresso nel nostro Paese, il documento che assicura quella conoscenza della nostra lingua utile per poter avere la cittadinanza, e che conferma la competenza adeguata – nota come il B1 – per presentarsi, esprimere le proprie esigenze quotidiane, muoversi nella società civile, entrare in dialogo con gli altri. 

Un percorso di studio che richiede impegno, costanza, esercizio, e soprattutto tempo. Chi ha un livello B1 non è più un principiante, apre davanti a sé le opportunità di avanzare nella conoscenza linguistica e culturale, di leggere giornali e riviste, di documentarsi per il proprio lavoro, di seguire bene programmi radiofonici e televisivi, film, di capire le parole delle canzoni, di leggere romanzi e poesia… e tanto altro. 

Quando un insegnante entra in una classe che ha già il livello B1, sa quanto lavoro è già stato fatto prima, in quante ore, con quanta pazienza e può avviare il proprio percorso di formazione linguistica verso successivi traguardi. Forse abbiamo fatto questa esperienza alla scuola media, con la lingua straniera – se insegnata e studiata bene, questo livello si raggiunge e resta nel patrimonio linguistico-cognitivo dell’allievo – o forse più tardi, nel biennio della scuola superiore, o all’università, con l’inglese o con una seconda lingua straniera. L’obiettivo del B1 è meta cui aspirano coloro che si avviano allo studio di una lingua, perché sanno che così “hanno le basi”, si sentono preparati per il futuro che li aspetta.

Preparare qualcuno a una certificazione di questo livello è quindi un impegno che richiede tempo e organizzazione nell’insegnamento: quanti insegnanti in Italia – nella scuola, in istituzioni pubbliche e private, all’Università – sono attivi in questo allenamento. Preparare all’esame di certificazione, costruire le competenze scritte e orali, che a loro volta si dilatano nelle forme della comprensione e della produzione, in una lista di tipologia di esercizi di grande varietà: esercizi di completamento, di riformulazione, questionari a risposte aperte e chiuse, riassunti e dettati, brevi esposizioni orali, interviste, una serie infinita di varianti che fanno la maestria dell’insegnante, che fanno sì che ricordiamo quell’insegnante a lungo e per sempre. 

E poi la preparazione alla prova d’esame: alla fine si studia la lingua o si studia l’esame? O si studia la lingua che serve per quell’esame? Quante ore nel ricevimento e nell’ascolto delle difficoltà dell’apprendente, delle sue paure, delle sue esitazioni, delle sue furbizie! Ogni insegnante avrebbe un piccolo romanzo da raccontare, per la varietà degli allievi incontrati e per gli stili di apprendimento con i quali fare i conti. Mentre si impara, non si può ignorare questa diversità, questa complessità: la tradizione dei corsi del Servizio linguistico dell’Università Cattolica (Selda) ha messo a fuoco fin dagli inizi questo punto irrinunciabile, la conoscenza del profilo dell’apprendente, del suo stile di apprendimento, forgiato anche dalla lingua e cultura di provenienza. Lezioni di vita e della ricchezza della diversità linguistica.

Forse ignoravamo quanto fosse importante una certificazione, e quanto lo sia per la nostra lingua, per tutte le opportunità che offre di conoscerne la cultura, il lavoro, le tradizioni, la bellezza.