di Giovanni Gobber *

Piace, a chi ha interesse a capire le cose, riflettere su particolarità dell’ortografia, come l’uso della i per il plurale ciliegie. Oriana Fallaci, fiorentina, la riteneva superflua e volle che una sua opera recasse, per titolo, Un cappello pieno di ciliege. Per questo, litigò con l’editore, che alla fine cedette: niente ciliegie. Ma la norma prevalente non è d’accordo con la Oriana ed esige che questa strana i sia inserita quando la sillaba precedente finisce in vocale. Dicono che, così facendo, si evitino anche fastidi alle camicie, che non sono confuse con il camice. Ma se la sillaba che viene prima termina per consonante, la i non si scrive: è il caso di arance, ma anche di province. 

Va detto che, ancora nel primo Novecento, scrivevano provincie (come nella Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde): era la grafia fedele alla versione latina, che pronunciava una bella i. Ma nell’italiano dell’uso comune non la si dice più – tra gli eruditi, peraltro, la si ode tuttora, per omaggio alle origini latine e, forse, alla ragione sociale della banca citata; chi non appartiene a tale sodalizio, usa la i nel singolare provincia per chiarire il suono della c che precede (i sodali citati invece scandiscono provinci-a). La vicenda mostra che la nostra ortografia ha tante ragioni, che meritano di essere conosciute e discusse. 

Peraltro, lo sforzo astrattivo richiesto dall’analisi della dimensione ortografica è notevole e non è di moda. Forse è per questo che l’ortografia non è messa in discussione: è temuta, perché invita a ragionare. Così, anche certe norme, che pur si potrebbero dibattere, sono lasciate tranquille.

È meno faticoso orientare l’interesse verso fenomeni singoli, concreti, tipici del parlato ed estranei all’italiano standard, che si colloca per lo più nell’ambito dello scritto. Scelte espressive periferiche, marcate regionalmente e socialmente, sono tollerate e si diffondono ampiamente, anche nelle varietà scritte. Avviene che alcuni propongano di “sdoganare” forme come scendi il cane / esci l’auto che sono marcate socialmente e regionalmente. Interpellati, autorevoli custodi della lingua italiana, pur tolleranti e ragionevoli, hanno ripreso un detto piemontese: esageruma nen. E lo hanno riformulato in buon italiano, invitando a maturare, così da saper scegliere le espressioni adatte ai diversi contesti d’uso. Va bene scherzare con i cani, ma teniamo presenti anche le ragioni dei gatti. La diversità è un valore, ma resta tale se si mantengono le distanze. Se poi la storia prenderà un’altra strada, non è dato prevedere.

* preside della facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, docente di Linguistica generale