di Adriano Pessina *

Il termine emergenza indica sia l’affiorare, il rendersi manifesto di qualcosa di già esistente, ma non ancora messo in primo piano, sia l’apparire dell’imprevisto, del non calcolato, dell’inaspettato e del nuovo. La pandemia che oggi viviamo porta con sé entrambi i significati: da tempo gli scienziati prevedevano un’epidemia, ma questo virus è drammaticamente nuovo e per questo così difficilmente contrastabile. 

Ogni emergenza comporta un riordino di valori, di scelte, di decisioni. Affrontare l’emergenza significa, di fatto, accantonare una serie di problemi, di questioni irrisolte e volgere lo sguardo altrove. Le emergenze sprigionano spesso delle capacità impensate, liberano, per così dire, delle riserve etiche, danno luogo, per così dire, a nuove “emergenze”.  

Su questi aspetti è necessario soffermarsi a pensare. L’espressione riserve etiche è carica di diversi significati. 

Il primo, quello che appare come il più bello da mostrare, riguarda una serie di fatti positivi. La generosità, l’altruismo, l’abnegazione di tutti coloro che si sono impegnati sul piano della cura e del prendersi cura, hanno evidenziato l’esistenza di un serbatoio – una riserva – di umanità che trascende qualsiasi obbligo sociale, ogni dimensione contrattualistica, dando luogo all’emergenza di una connotazione antropologica, di una qualità dell’umano che dovrebbe farci riflettere sul senso della nostra condizione umana e della nostra capacità di rispondere della vita altrui, anche a rischio della nostra vita. 

Essere responsabili, in questo agire, non significa “rispondere a qualcuno del nostro agire” quanto rispondere della vita altrui e quindi prendersi cura di qualcuno. Non soltanto rispondere “a”, ma rispondere “di”.

Piaccia o no, questo agire è profondamente anti-utilitaristico e anche anti-darwiniano, se con queste nozioni intendiamo il perseguimento della massimizzazione dei risultati collettivi rispetto alla dedizione nei confronti del singolo come individuo, come persona, come un tu comunque irripetibile. 

Chi è abituato a tradurre in simboli e formule i dilemmi etici e a far di conto, tende a considerare irrilevante numericamente la morte di migliaia di persone a fronte della crisi del benessere di centinaia di milioni di cittadini; tende a considerare insensato mettere in crisi un’economia già debole rispetto a un’epidemia che - crede -  colpisce prevalentemente le fasce più esposte fisicamente e che, comunque, numericamente, sarebbe pur sempre radicalmente minoritaria rispetto al benessere collettivo. Invece la riserva etica è capace di dare voce a una tesi che sfugge al calcolo, che capovolge l’ordine delle grandezze: la vita e la salute di pochi val bene il sacrificio presente e futuro di molti. Perché i “pochi” numericamente hanno un nome, un volto, una storia, sono parte viva nella carne di tutti e i molti esistono non come numeri ma come nomi, volti e storie che, fino a non molto tempo fa, avevamo il coraggio di definire “famiglia umana”: nozione, questa, di cui è diventato difficile comprendere pienamente la portata simbolica e la carica etica. 

Questa riserva di generosità e di altruismo, è la stessa che si è sprigionata in tutte le forme di azione con cui le persone, a diverso titolo – nelle corsie degli ospedali, nella costruzione della filiera alimentare, nella distribuzione delle risorse,  nel governo della cosa pubblica, per finire con il rispetto delle norme impartite- stanno affrontando insieme l’emergenza Covid 19.

Ma poi c’è anche un’altra riserva, un altro serbatoio che segna l’ethos, ed è quello che resta per ora in gran parte sommerso, ma che ogni tanto riaffiora attraverso le parole di chi preme per soluzioni rapide di un capovolgimento di priorità che fino in fondo non capisce, nella sottile indifferenza verso ciò che capita ad “altri”, nella insofferenza per le restrizioni che subisce, nella cantilena che ricorda che “comunque” muoiono i vecchi, i già malati e che non possiamo permetterci una crisi economica per qualche migliaia di morti.  Perché ci sono coloro che hanno delle “riserve” nei confronti della narrazione del dolore, della sofferenza, della morte “altrui”, perché i problemi sono “ben altri”. C’è anche, sottile, la riserva di violenza che è compressa dentro un’emergenza che contiene le pratiche quotidiane dei soprusi, delle illegalità, delle mafie di ogni genere, e che attende una rivincita. 

Questo è un tempo tragicamente bello quando fa emergere il buono, perché nel bene c’è una bellezza e una grandezza che non hanno bisogno di parole. Ed è questa riserva etica che non dovrà essere dispersa quando si tornerà alla normalità e i problemi lasciati in sospeso – le questioni del lavoro, della giustizia, dell’immigrazione, dell’integrazione, della povertà, dell’ambiente, tanto per citarne solo alcuni – diventeranno la nuova emergenza, sociale, politica, culturale. 

Ma la prossima emergenza è non soltanto intuibile ma prevedibile, calcolabile persino: se questa riserva etica positiva che si è dispiegata nel Paese emergesse definitivamente e fosse in grado di tradursi in progetti, in forme di ricostruzione dei tessuti sociali, forse, questa tragedia potrebbe lasciarci in eredità un serbatoio di valori e di priorità capaci di non farci tornare a come eravamo prima. Un serbatoio di valori da custodire, per onorare i nostri morti, per ringraziare chi non si è sottratto alle proprie responsabilità, per cercare di costruire insieme una storia capace di umanità e, perciò, di speranza. 

* docente di Filosofia morale, facoltà di Scienze della formazione, campus di Milano, Università Cattolica 


La foto in alto è relativa al nuovo Columbus Covid-2 Hospital di Roma