L’articolo del professor Claudio Lucifora, docente di Economia del lavoro alla facoltà di Economia dell’Università Cattolica, fa parte dello speciale dedicato alle sfide che attendono il nuovo governo
Mentre si delineano i primi capisaldi del programma del nuovo governo, il dialogo sui provvedimenti sui temi del lavoro sembra trovare un’inattesa concordanza di vedute tra i partiti politici che faranno parte o sosterranno dall’esterno il governo. In particolare, alcuni provvedimenti già avviati dal precedente Governo e in attesa di essere perfezionati, oppure disegni di legge già ampiamente discussi potrebbero facilmente trovare il sostegno necessario ad essere approvati dal Parlamento. Inoltre, nonostante alcuni provvedimenti legislativi sul lavoro introdotti dal precedente Governo abbiano prodotto esiti discutibili, sarebbe saggio non impiegare tempo e sforzi per disfare totalmente quanto già fatto, ma operarsi piuttosto per emendarlo e migliorarlo.
Decreto dignità
Ecco alcuni esempi. In primo luogo, il “decreto dignità” che pur avendo aumentato, come era lecito attendersi, le trasformazioni dei contratti in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ha anche contribuito ad aumentare notevolmente l’utilizzo di contratti a tempo determinato di breve o brevissima durata elevando così il turnover delle imprese e aumentando la precarietà del lavoro. Si potrebbero in questo caso introdurre delle correzioni marginali al “decreto dignità” semplificando e riducendo la disciplina delle causali e, in attesa del pronunciamento della Corte europea (alla quale è stata rinviata dal Tribunale di Milano), rivedere marginalmente la disciplina dei licenziamenti così come prevista dal “Jobs Act”.
Quota 100
In secondo luogo, sul fronte delle pensioni, si discute molto del provvedimento noto come “quota 100” che avrebbe dovuto cancellare definitivamente la “riforma Fornero”. Tale provvedimento ha tuttavia mostrato notevoli limiti sotto diversi fronti: primo, la temporaneità (3 anni) delle misure; secondo, la ridotta platea dei lavoratori che hanno aderito e, terzo, gli ingenti costi che il programma avrebbe a regime. Nonostante tutto deponga a favore di una rapida contro-riforma pensionistica, in realtà anche in questo caso sarebbe meglio evitare di cambiare nuovamente le regole del pensionamento ed evitare il ripetersi del fenomeno degli “esodati”, cioè quello di spiazzare tutti quei lavoratori sulla base di “quota 100” che hanno pianificato di andare in pensione. I risparmi già accumulati e la temporaneità del programma consentirebbero in questo caso di gestire il problema con gradualità semplicemente aspettando la sua scadenza.
Reddito di cittadinanza
In terzo luogo, il cosiddetto “reddito di cittadinanza” che ha avuto il merito di finanziare più generosamente le misure di contrasto alla povertà e, in teoria, quello di attivare meccanismi più efficienti per il collocamento dei disoccupati al lavoro. Questo secondo pilastro, a causa di ritardi, errori di programmazione e commistione tra politiche attive e assistenza sociale, ha totalmente mancato l’obiettivo, ma non dovrebbe essere impossibile gestire meglio le risorse, e il personale, che a questo programma sono state destinate.
Salari
In ultimo, sul fronte dei salari c’è un provvedimento su cui un’intesa potrebbe essere trovata facilmente, ed è l’introduzione di un salario minimo legale. L’istituzione del salario minimo era già di fatto prevista nel “Jobs Act”, sebbene poi venne abbandonata per la forte opposizione delle parti sociali. Attualmente, sono in discussione in Parlamento due proposte per l’istituzione del salario minimo e l’estensione “erga omnes” dei contenuti economici dei contratti collettivi nazionali siglati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative. I due disegni di legge, uno a firma Catalfo (5 stelle), l’altro a firma Nannicini-Fedeli (PD), presentano un’articolazione degli istituti non troppo difforme e una versione opportunamente emendata potrebbe trovare facilmente il sostegno necessario per essere approvata dal parlamento.
Rimangono due nodi da sciogliere. Il primo il livello a cui fissare il minimo, che la proposta Catalfo fissa a 9 euro (lordi), mentre la proposta Nannicini-Fedeli delega ad una Commissione composta da rappresentanti delle parti sociali ed esperti. Quest’ultima pare in assoluto l’ipotesi da prediligere per evitare che l’introduzione del salario minimo finisca per pesare eccessivamente sulle imprese e penalizzare l’occupazione. Il secondo nodo riguarda la copertura e cioè la platea di lavoratori che sarebbero soggetti all’applicazione. In questo caso, per evitare di interferire eccessivamente con il sistema di relazioni industriali, il salario minimo dovrebbe svolgere una funzione di “minimo di garanzia” per tutti quei lavoratori che non godono della copertura dei CCNL firmati dalle associazioni comparativamente più rappresentative, e per quei lavoratori con scarse tutele per i quali il salario minimo orario potrebbe fungere da riferimento indipendentemente dal tipo di contratto applicato. Proprio sul salario minimo si potrebbe innestare la riduzione del “cuneo fiscale”, di cui si parla da decenni ma senza interventi particolarmente incisivi. Una riduzione degli oneri a carico delle imprese e dei lavoratori consentirebbe, da un lato, di compensare parzialmente gli effetti del salario minimo sul costo del lavoro delle imprese e, dall’altro, di garantire una retribuzione netta maggiore ai lavoratori con livelli retributivi più bassi.
Un programma di governo che portasse a compimento questi punti farebbe un grosso servizio al Paese e al buon funzionamento del mercato del lavoro. Attendiamo fiduciosi.