L’articolo di Antonio Campati, assegnista di ricerca in Filosofia politica alla facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica, fa parte dello speciale dedicato alle sfide che attendono il nuovo governo
di Antonio Campati
È noto che nessun obbligo costituzionale vincola il Presidente della Repubblica italiana a nominare come Presidente del Consiglio dei Ministri il leader del partito che ha ottenuto più voti alle elezioni. Eppure, da quando gli effetti della personalizzazione della politica sono diventati più invadenti – specie con l’inserimento dei nomi dei leader sui simboli elettorali – nella percezione di molti questa corrispondenza sarebbe dovuta diventare un automatismo.
Nell’opinione pubblica si è creata così una grande confusione tra prassi costituzionale, legittimi auspici di riforma istituzionale, dinamiche parlamentari. E, inevitabilmente, anche con l’ultima crisi di governo, la polemica su questo punto si è riaccesa.
La nomina degli ultimi cinque Presidenti del Consiglio (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte) non ha avuto nessun legame diretto con gli esiti delle elezioni che hanno inaugurato la legislatura nella quale si sono insediati. Nel senso che nessuno di questi leader era il candidato premier di una delle forze presenti alle elezioni. Ma, come ricordato, ciò è quasi inevitabile nella nostra democrazia parlamentare dove i governi devono ottenere la fiducia del parlamento.
Non deve dunque sorprendere che le maggioranze parlamentari possano variare composizione all’interno di una legislatura. Rispetto a situazioni simili del passato, però, emergono in questi giorni due aspetti inediti: innanzitutto, la prossima maggioranza sarà formata da due partiti, M5S e PD, laddove il primo era il partner numericamente più importante della precedente maggioranza, basata su un accordo con la Lega, ora all’opposizione. E, in secondo luogo, a un così radicale cambiamento non corrisponderà la scelta di un nuovo presidente del Consiglio.
Se da un lato, la formazione del nuovo governo Conte è costituzionalmente ineccepibile, dall’altro, però, è comprensibile un senso di disorientamento dell’opinione pubblica. Non solo per la formazione di un nuovo governo a poco più di un anno dalla nascita del precedente. Ma perché due partiti prima acerrimi avversari ora sono i partner principali di una nuova maggioranza.
Il dato su cui soffermarsi non è la presunta incoerenza di questo o quel gruppo parlamentare, quanto piuttosto l’adattabilità – o, addirittura, l’interscambiabilità – delle prospettive politico-culturali che sorreggono l’azione delle coalizioni governative (prima M5S e Lega, ora M5S e PD). In tal senso, è significativo che il Movimento 5 Stelle rivendichi con orgoglio di non essere «né di destra, né di sinistra».
Ci avviamo verso una stagione nella quale le differenze saranno sempre più (solo) sulle «cose da fare»? Diventerà del tutto superfluo un quadro valoriale nel quale collocare l’azione politica? Si governerà sempre più la contingenza, ricercando competenze tecniche di volta in volta necessarie, relegando definitivamente la formazione politica permanente in un angolo della storia?