di Cesare Catananti *

È il pomeriggio del 3 novembre del 1906. A Tubinga si sta svolgendo la 37ª riunione degli psichiatri del Sud-Ovest della Germania. Alois Alzheimer, collaboratore di Kraepelin presso l’Istituto di Psichiatria di Monaco, viene invitato sul podio. Il presidente della sessione è Alfred Hoche di Friburgo. Konrad e Ulrike Maurer nel loro libro Alzheimer, la vita di un medico, la carriera di una malattia (2012) descrivono dettagliatamente quei momenti. «Il Sig. Dott. Alzheimer di Monaco, ora riferirà su “Un singolare grave processo patologico della corteccia cerebrale”. Signor collega Alzheimer a lei la parola».

Alzheimer è una figura già conosciuta. Ha 42 anni e una carriera di clinico e di ricercatore ben consolidata tra Francoforte, Heidelberg e Monaco. Nel campo delle demenze, che è il settore di suo specifico interesse, ha già pubblicato nel 1898 un’approfondita revisione della relativa letteratura.
Alzheimer, guadagnato il podio, prende la parola anticipando subito che parlerà di un «quadro così differente che non si poteva inserire in nessuna delle malattie conosciute». Con questo esordio Alzheimer è convinto di catturare da subito l’attenzione del pubblico. Dopo aver ringraziato il professor Franz Sioli, suo ex direttore a Francoforte per avergli concesso il cervello della paziente Augusta D. su cui ha effettuato le ricerche istologiche, entra nel vivo del caso. In maniera estremamente accurata riferisce sull’esordio clinico e sulla sua evoluzione. «Uno dei primi sintomi di una donna di 51 anni fu un forte sentimento di gelosia verso suo marito. Molto presto mostrò perdite di memoria in rapido aumento; non si orientava in casa sua, spostava oggetti da una parte all’altra, si nascondeva, a volte pensava che qualcuno volesse ucciderla e cominciava ad urlare…». Alzheimer passa allora a presentare le fotografi e dei preparati istologici. Precisa che i preparati sono stati prodotti con il metodo dell’argento di Bielschowsky e ne illustra le caratteristiche patologiche.

Sulla base di queste evidenze, non nasconde la convinzione che ci si trovi di fronte a «un processo patologico particolare» che non rientra per caratteristiche cliniche (l’esordio precoce) e istologiche (le alterazioni delle neurofibrille) nei quadri di demenza noti. Alzheimer si aspetta un dibattito accesso. Che invece non ci sarà. Ma il disinteresse non fu solo limitato al momento congressuale. Si estese, infatti, anche alla trascrizione degli atti. La relazione non fu riportata e come scrive Bruno Lucci nel libro La memoria ritrovata, Gaetano Perusini e Alois Alzheimer (2012) «in ordine alla undicesima comunicazione, dopo il nome dell’autore e il titolo, compare l’enigmatica frase Zu kurzen referat nicht geeignet (per una breve relazione non adatta/opportuna)». (...)

Certo l’esordio non era stato dei migliori con quel disinteresse dell’auditorio, ma Alzheimer crede, almeno in quel momento, di essersi imbattuto, con il caso di Augusta D., in qualcosa di nuovo. E va avanti con una precisa strategia che passa per il ricercatore italiano Gaetano Perusini. Al medico friulano non solo affida il compito di rivedere il dossier di Augusta D., ma lo incarica anche di arricchire la casistica.

E Perusini, che con Bonfiglio già da qualche mese era stato coinvolto in quello studio, inizia con meticolosità e passione a lavorare su quella idea. La ricerca, datata 1908, riguarderà quattro casi, compreso quello di Augusta D., e sarà pubblicata nel 1909 nella collana diretta da Alzheimer e Nissl “Lavori istologici e istopatologici sulla corteccia cerebrale con particolare riguardo all’anatomia patologica delle malattie cerebrali”. Il lavoro, che è a esclusiva firma di Perusini, avrà come titolo Uber klinisch und histologisch eigenartige psychische Erkrankungen des spateren Lebensalters (Sugli aspetti clinici ed istologici di una particolare malattia psichica dell’età avanzata). (...)

La conclusione, secca e inequivocabile, di Perusini è che «siano necessarie future ricerche per definire più accuratamente con l’accumularsi dei casi il complesso sintomatologico di questa forma patologica e inoltre per determinare se esiste un rapporto eziologico con l’involuzione senile». Perusini, quindi, non si sbilancia né a favore né contro l’ipotesi di una nuova forma morbosa. Nutre dei dubbi che di fatto non mancavano anche allo stesso Alzheimer che in un articolo del 1911, pubblicato su «Zeitschrift fur die Gesamte Neurologie und Psychiatrie», quasi contrapponendosi al suo mentore Kraepelin, a proposito di quel “particolare processo patologico” scriverà: «Allora si impone la domanda, se questi casi da me considerati singolari mostrino ancora segni caratteristici sotto l’aspetto clinico e istologico che li distinguano dalla demenza senile, oppure se li si debba attribuire ad essa…».
Ma è ancora Perusini, nello stesso anno, a tornare sull’argomento con il lavoro Sul valore nosografico di alcuni reperti istopatologici caratteristici per la senilità pubblicato sulla «Rivista italiana di Neuropatologia, Psichiatria ed Elettroterapia». Dopo aver ripercorso gli studi sulle placche, che, come precisa, non mancano mai nel cervello dei dementi senili e la cui diffusione è un indice della gravità del processo involutivo, affronta il significato delle alterazioni delle neurofibrille che costituiscono la vera novità della scoperta di «quelle forme atipiche della demenza senile individualizzate da Alzheimer». Vale la pena di sottolineare come nell’espressione «individualizzate da Alzheimer» c’è tutto il rispetto dell’allievo per il maestro nel riconoscergli la primigenia titolarità della osservazione. Ma ancora una volta, segnala Lucci,
Perusini «non trae definitive conclusioni». Di fatto non corrobora la tesi di Kraepelin della distinzione tra demenza senile e “malattia di Alzheimer”. Ha bisogno di più casi, di più tempo. Ed è quanto mai esplicito nel dire che «alla soluzione di questo problema spero portare fra breve ulteriori contributi». Che, purtroppo, non arriveranno mai. Perusini morirà l’8 dicembre del 1915 (stesso anno e stesso mese di Alzheimer) a soli 35 anni, volontario al fronte, per le ferite riportate nello scoppio di una granata austriaca nei pressi di Cormons.
E Alzheimer? Non metterà più al centro dei suoi interessi le demenze, spaziando su altri campi. Nel 1912 ottiene la cattedra di Psichiatria di Breslavia come meritato coronamento della carriera. A Breslavia continuerà il suo impegno di clinico, ricercatore e docente. Con successo e fama. Ma comincia a non stare bene. Alzheimer morirà il 19 dicembre del 1915 per una probabile sepsi da endocardite.
La partecipazione al lutto fu straordinaria ma sorprendentemente, osservano ancora Konrad e Ulrike Maier, in quasi tutti i necrologi non si fece cenno della malattia che da lui prese il nome. Non ne fecero parola né Kraepelin, né Nissl, né Max Lewandowsky, coeditore con Alzheimer della «Rivista generale di Neurologia e Psichiatria». È come se iniziasse a calare una sorta di oblio su una “scoperta” in cui alla fine sembrava che, forse, nemmeno gli stessi protagonisti credessero più di tanto.
E così nel decennio successivo e poi in quelli a seguire, progressivamente, della “malattia di Alzheimer” se ne parlerà sempre meno.

* docente di Storia della medicina, Policlinico Gemelli