La loro è una storia di successo tutta al femminile, compresa tra il lancio del primo spin off dell’Università Cattolica e la cessione alla multinazionale farmaceutica Hanmipharm Pharmaceuticals - sottoscritta proprio in questi giorni - di una quota di quella che nel frattempo è diventata una vera e propria impresa.
Tutto ha origine dieci anni fa. Marina Elli, Daniela Cattivelli, Sara Soldi ed Elena Bessi (che nel 2010 ha lasciato per motivi personali), quattro giovanissime neolaureate in Scienze agrarie della sede di Piacenza dell’Ateneo, danno vita, con il sostegno della facoltà e della sede piacentina, ad Advanced Analytical Technologies (Aat).
«Dopo la laurea in Agraria e in Scienze e Tecnologie Alimentari abbiamo intrapreso un dottorato di ricerca in biotecnologie molecolari, operando sia in realtà interne che esterne all'ateneo» raccontano Marina e Sara. «Nel 2004 ha cominciato a balenarci in testa l'idea dello spin off, grazie al sostegno del professor Lorenzo Morelli: non è stato facile, siamo state un po’ come dei pionieri, perché per la Cattolica era la prima volta. Ma ci abbiamo creduto e nel 2005 abbiamo iniziato a dedicarci a dare gambe alla nostra idea».
Come si è sviluppato il vostro progetto? «Avevamo stipulato un contratto triennale di collaborazione con l'ateneo, ma dopo i primi due anni passati nell'istituto di microbiologia della Cattolica a Piacenza, ci siamo rese conto che avevamo bisogno di uno spazio più ampio per far crescere il nostro spin off. Dal 2007 all'agosto 2015 ci siamo trasferite in una sede autonoma a in città. Da settembre 2015, invece, ci siamo spostate in una nuova sede, di 1.000 metri quadrati a Fiorenzuola d'Arda, tra Parma e Piacenza, dove attualmente ci troviamo».
Quali sono le vostre principali attività? «Sono principalmente tre le aree su cui operiamo e che contiamo di sviluppare sempre di più in futuro: il servizio di controllo e qualità e di ricerca e sviluppo di nuovi prodotti per le aziende alimentari e farmaceutiche, insieme al servizio studi clinici e di isolamento dei batteri di nostra proprietà».
La multinazionale coreana Hanmipharm Pharmaceuticals ha chiesto e ottenuto l'acquisizione del 30% delle quote di Aat. «La Hanmipharm era interessata alle nostre attività sui probiotici, in particolare sulla microflora dei bambini, sui cui vorrebbe sviluppare prodotti destinati a questo specifico target. Abbiamo stipulato un contratto di servizio per ricerca e sviluppo. Da lì è partito un iter di conoscenza reciproca, che ci ha portato nel loro centro di ricerca a Pechino, dove abbiamo trascorso dieci giorni a conclusione dei quali ci hanno fatto l'offerta di acquisizione».
L’impresa resterà però saldamente nelle vostre mani… «Sì, ciascuna di noi mantiene il 17% delle quote e un 10% rimane all’Università Cattolica. Possiamo dire che abbiamo raggiunto l’obiettivo di internazionalizzare un’azienda di ricerca avanzata italiana con il mantenimento però delle quote di maggioranza in Italia. Un bel risultato, no?»
E poi è rilevante che siate tre giovani donne imprenditrici in grado di attrarre l'interesse di investitori internazionali. È normale per questo settore? «A differenza di altri, il settore biologico e farmaceutico è caratterizzato da una spiccata presenza femminile anche in ruoli chiave, anche se siamo ancora lontano dal poter parlare di pari opportunità. Di certo rispetto ad altre aree c'è più apertura. Noi non abbiamo trovato difficoltà per il fatto di essere donne, ma siamo consapevoli che esistono realtà e Paesi dove ancora, anche nel nostro settore, l’idea delle donne in posizioni di responsabilità fatica ad affermarsi».
Che ruolo ricopre l’Italia sul piano delle attività legate ai probiotici? «L'Italia è un Paese guida su questo tipo di mercato. È stata il primo in Europa a commercializzare prodotti a base di probiotici per la salute. Molte realtà estere che si stanno affacciando ora su questo mercato, infatti, guardano con molto interesse al nostro Paese, e questo spiega anche la nostra collaborazione con Hanmipharm pharmaceuticals».
Avete più rapporti con investitori italiani o esteri? «Abbiamo clienti sia in Italia che all’estero, ma è innegabile che abbiamo soprattutto contatti con investitori europei, oltre che asiatici e americani. In Italia trovare persone disposte a investire nel nostro settore è molto più difficile, c’è poca lungimiranza e si preferisce continuare a focalizzarsi sulle stesse attività che vengono svolte da anni. Non sappiamo se si tratti di una questione meramente economica oppure anche di una certa predisposizione mentale: quello che è certo è che è molto più facile trovare interlocutori oltreconfine».
Molti giovani neolaureati decidono di lasciare l’Italia. Voi siete la prova che un percorso diverso è possibile. «È innegabile: riuscire in Italia, soprattutto in determinati settori, è molto più difficile. Noi siamo state anche molto fortunate: abbiamo incontrato persone disposte a investire su di noi e a prendersi un rischio, come ha fatto il professor Morelli con noi. Ci vuole comunque molta pazienza e costanza, perché le difficoltà che si possono trovare sono moltissime. In ogni caso, è consigliabile fare almeno un’esperienza all'estero, indipendentemente dal fatto che si scelga di lavorare in Italia o fuori. Rapportarsi con altre realtà è sempre proficuo, soprattutto se si tratta di settori ancora in crescita».