Il Co-sviluppo come una sfida aperta sulla possibilità che la politica della cooperazione internazionale e le politiche migratorie non siano più in contrapposizione, ma possano procedere parallelamente e in modo coordinato per tradursi in un volano di sviluppo. E a un tempo il co-sviluppo come strategia di triple-win che concretizza risultati positivi sia per il migrante, sia per il contesto di provenienza, sia per quello di arrivo. A partire da queste premesse si è svolto lo scorso 3 marzo il convegno “Co-sviluppo: possibilità o utopia?”, promosso dalla facoltà di Scienze politiche e dall’Associazione “Capramagra” per approfondire il tema con l’aiuto di un sociologo e di alcuni operatori sul campo. Tra i relatori, moderati dal sociologo della cooperazione per lo sviluppo della Cattolica, Marco Caselli, Maurizio Ambrosini, sociologo delle migrazioni dell’Università degli Studi di Milano; Tana Anglana dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim); Modou Gueye, presidente dell’Associazione Sunugal – Milano-Senegal; Alessandra Soprano, responsabile settore Migrazioni di Coopi a Milano; Petra Mezzetti del Cespi di Roma.

Al centro del dibattito la convinzione che il migrante non sia più, come in passato, un mero beneficiario delle politiche comunitarie, ma un soggetto attivo tanto nella società italiana quanto nel proprio Paese d’origine. La migrazione oggi non è un fenomeno necessario per il conseguimento dello sviluppo secondo l’idea “miglior migrazione per maggiore sviluppo” contro la classica impostazione del “più sviluppo per minore migrazione”. Ad approfondire questo concetto è stato Maurizio Ambrosini che ha spiegato il cambiamento di prospettiva dagli anni Novanta quando esistevano i “progetti di rientro” dei migranti con un’accezione negativa perché la migrazione era vista come una patologia, un problema sociale la cui unica soluzione era il rimpatrio. Oggi è importante partire dalla considerazione che la maggior parte dei migranti non arriva dai Paesi più poveri del mondo ma da Stati come Cina, Romania, Albania, Marocco, e che si tratta di una forza lavoro di cui noi non possiamo fare a meno.

Oggi dovremmo parlare di migrazioni “transnazionali” nel senso che da un lato occorre superare i nazionalismi e pensare in funzione della persona e del ruolo sociale che ricopre indipendentemente dalla nazionalità riportata sul suo passaporto; e dall’altro bisogna riconoscere che gli stranieri non possono conformarsi totalmente agli stili e ai valori italiani e che la loro diversità culturale rappresenta una ricchezza. Basta riflettere sul fenomeno delle rimesse o delle attività imprenditoriali promosse da migranti per capire quanto ne benefici la produttività sul territorio italiano e nello stesso tempo quanto venga incrementata l’economia del loro Paese d’origine.

A questo proposito Tana Anglana dell’Oim ha specificato che i migranti in Italia sono circa 3.900mila (dati Istat, dicembre 2008), che rappresentano il 6,5% della popolazione italiana (di cui il 50% sono donne) e che 187.466 sono imprenditori, ossia il 7% del totale degli imprenditori italiani (di cui il 50% è diplomato o laureato). Inoltre le rimesse inviate dall’Italia nel 2008 sono state più di 6 miliardi e 300.000 euro. Tutti dati che confermano una movimentazione di denaro e una produttività che certamente sono proficue anche per l’economia italiana.

Transnazionalismo imprenditoriale e associazioni di migranti che raccolgono denaro e lo inviano ai Paesi d’orine per aprire nuove attività locali sono, dunque, fenomeni da leggere positivamente e da sostenere. Fatte queste considerazioni, come ha dichiarato Ambrosini, il co-sviluppo si pone come un rapporto produttivo quadrangolare tra donatori, ONG, associazioni di migranti e attori locali, che trasforma definitivamente la relazione migrazioni/ sviluppo da patologia a sinergia.