Claudio Magris intervistato da Ermanno Paccagnini nella libreria di Vita e Pensiero qualche anno faPer la prima volta dall’introduzione dell’attuale prova di italiano è stato proposto tra le tracce della maturità uno scrittore vivente, Claudio Magris. In particolare un brano tratto dal romanzo L’infinito viaggiare, tra lo stupore dei maturandi. Per molti di loro, infatti, l’autore triestino risultava sconosciuto. I giornali hanno dato ampio risalto alla scelta del ministero, proponendo interviste allo scrittore e ai suoi critici. Tra di loro figura il professor Ermanno Paccagnini, docente di Letteratura italiana contemporanea. Proprio al dialogo tra Magris e il docente-critico dell’ateneo era dedicato un dibattito pubblicato nel numero 3/2005 del bimestrale “Vita e Pensiero” dell’Università Cattolica. Pubblichiamo di seguito la prima domanda con la conseguente risposta e rimandiamo al file pdf per la lettura dell’articolo integrale.

 

Ma senza etica esiste la letteratura?
L’amore per la lettura e la necessità per lo scrittore di misurarsi con i grandi temi del bene e del male. Ma anche l’impegno civile, la laicità e il senso del divino: un confronto sui destini della letteratura e sulla sua funzione nel mondo

Ermanno Paccagnini: Partirei dalla lettura e dai tanti diversi aspetti che ne fanno la ricchezza. E vorrei ricordare come invece oggi pullulino le scuole di scrittura, dimenticando al contrario che la vera essenza, in questo campo, dovrebbe consistere nella lettura e che, pertanto, servirebbero proprio delle scuole di lettura: perché è solo con la lettura che si impara a scrivere. Se penso alla mia esperienza personale, a quello che abitualmente si chiama «il libro della tua vita», ciò mi è accaduto da ragazzo con l’Enciclopedia Conoscere e con la sua grande capacità di generare curiosità, di aprire le menti all’immaginario grazie alle sue numerose storie e immagini. E per Magris? C’è stato un libro di questo tipo? Quale è stato il tuo primo impatto con la lettura? E con quali libri?

Claudio Magris: Credo che valga per tutti, grandi scrittori e semplici lettori, quello che ha detto mirabilmente Borges: «Altri si glorino dei libri che hanno scritto; la mia gloria sono i libri che ho letto». E questo credo che sia veramente un punto da cui partire, perché il “libro” è per chiunque, anche se ha fatto chissà che cosa, “il libro che ha letto”. Il primo libro me lo ha letto mia zia Maria, perché ancora non sapevo leggere – avevo cinque anni e mezzo ed era I misteri della giungla nera di Emilio Salgari. Nel frattempo ho imparato a leggere grazie a mia madre, che era maestra elementare, dato che in tempo di guerra non potevo frequentare (poi mio padre mi ha mandato a Udine, dove potevo andare a scuola), e così Salgari me lo sono finito da solo: la seconda parte, quella per intenderci un po’ meno bella, dove Tremal-Naik comincia a essere, sia pur per doppio gioco, “collaborazionista” e, in qualche modo, diventa Saranguy. Sempre però per nobilissimi motivi. Questo libro è stato fondamentale per varie ragioni: anzitutto perché,come a tutti i bambini, a me non interessava sapere chi potesse averlo scritto. Anzi, neppure pensavo che qualcuno potesse averlo scritto. Contava la storia che veniva raccontata. Poi Salgari è stato importante non solo per il carattere ovviamente avventuroso dei suoi romanzi, ma perché mi ha dato, per così dire, il la: anzitutto il senso della varietà del mondo e della sua unità, e un grande senso epico. Per me, quel libro si fonde nell’immagine bellissima del «Gange, questo grande fiume» con cui inizia I misteri della giungla nera, che è come l’Oceano della mitologia greca che cinge il mondo e gli dà unità. E questo mi ha lasciato il senso dell’avventura, della curiosità, ma soprattutto, se dovessi ridurlo all’osso, il senso di varietà, della diversità e dell’unità del mondo.

E si capisce che a quell’età credevo che Salgari fosse il più grande scrittore del mondo. Poi a poco a poco ho corretto quest’immagine, che però mi è rimasta a lungo. Tant’è vero che, quando molti anni dopo sono andato a studiare a Torino, all’Università – quando ho cominciato a studiare “il mito asburgico” ed ero quindi un pochino più smaliziato di un bambino analfabeta –, e sono diventato grande amico di Massimo Salvadori, ho scoperto che anche per lui Salgari era un punto di riferimento; stava scrivendo Il mito del buon governo e studiando il pensiero marxista: argomenti più complessi, quindi, che non i pirati della Malesia. E credo sia fondamentale: ho avuto sempre il senso epico dell’unità della vita, e anche se non sempre ci ho creduto e a volte ho pensato di averlo perso, è rimasta la consapevolezza della sua importanza. Insieme a ciò, per me è stato fondamentale che la lettura si sia confusa, in quest’esperienza originaria, con la letteratura orale, perché era mia zia che leggeva per me.

E veniamo alle enciclopedie. Che sono connesse con quanto detto fin qui, perché Salgari scriveva romanzi che raccontavano avventure mirabolanti, ma che fornivano anche molte informazioni sul mondo; perché il suo narrare era un vero trattato di geografia, con le prime nozioni vere di geografia, le Filippine, le isole Aleutine. Un Atlante, in qualche modo. È anche un’enciclopedia, come è sempre l’epica; e questo è stato molto rilevante per me. Poi ci sono state le enciclopedie vere e proprie, che mi interessano molto, perché mi interessa la realtà. Trovo che la realtà sia la vita originale, come diceva Svevo: «Certo più originale di quella che posso inventare io». E Melville: «Truth is stranger than fiction», la verità è più bizzarra della finzione; e Melville sapeva inventare, con Moby Dick e tutto il resto. Quindi le enciclopedie mi interessano proprio per questo senso della realtà, questo fare i conti con le cose, con i dati, che hanno una grande poesia e anche una poesia dell’esattezza che ho sempre avvertito; perché si carica di poesia questo senso di rispetto verso la realtà.

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