di Giulia Lupi *

Giulia Lupi, Uganda, seconda da destraSe devo riassumere 20 giorni di Uganda in una parola, l’unica che mi viene in mente è piena. Piena di tutto: esperienze bellissime e altre bruttissime, piena di volti, di bambini, piena di terra rossa, dovunque e su ogni vestito che indossavamo, piena di gente per strada a ogni ora del giorno e della notte, piena di venditori ambulanti nei mercati lungo la strada con gli odori più intensi di sempre, piena di posti mozzafiato per la bellezza del paesaggio e altri altrettanto mozzafiato per la povertà assoluta in cui vivono. Piena la memoria, la mia, e pieno il cuore, soprattutto.

È stata un’esperienza formativa su tutti i punti di vista: professionale, umano, religioso. Ma questo lo sapevo già prima di partire. Quello che non sapevo era quanto sarebbe stato formativo e impegnativo stare lì.

Da futuro medico ho avuto la possibilità di vedere malattie da noi quasi scomparse, altre rarissime, altre in stadi avanzatissimi: ma se da un lato il mio “io medico” gioiva del toccare con mano cose viste solo sui libri, dall’altra il mio “io donna” moriva dentro a vedere le condizioni in cui vivono, e, purtroppo, le condizioni in cui muoiono.

Tanti malati affetti da Hiv, tubercolosi, malaria, febbre tifoide e poi casi di elefantiasi, Sarcoma di Kaposi, Linfoma di Burkitt, fascite necrotizzante, scabbia, meningiti, e la lista potrebbe continuare ancora. Ma la cosa devastante è che la paziente con le caverne di tubercolosi aperte aveva 16 anni, quello Hiv positivo con la conta dei CD4 a uno ne aveva 35, un bambino con meningite fulminante aveva un mese.

I medici locali sono molto preparati ma purtroppo c’è un divario a dir poco abissale tra ciò che la medicina basata sull’evidenza consiglia di fare e ciò che loro hanno i mezzi per fare. Tanto per dare l’idea: la scelta dell’antibiotico non è sul risultato dell’antibiogramma o sulla maggior efficacia dimostrata per quel tipo di infezione, ma dipende da quanto può spendere il paziente e quello che c’è in farmacia. E noi stavamo lì a pensare a quante cose avremmo potuto portare, potendo il farmaco giusto fare davvero la differenza.

Ma ciò che più di tutto mi ha colpito è la pazienza degli Ugandesi e la capacità di sorridere nonostante le avversità, nonostante un destino segnato dall’essere nati lì, nel continente nero, in un Paese ancora ferito dal sangue versato in una guerra civile durata vent’anni e conclusasi nel quasi silenzio globale solo otto anni fa.

Perché uno quando parte non si immagina di vedere orfanotrofi pieni di bambini, non si aspetta di sentire racconti di chi la guerriglia l’ha vissuta davvero, di chi si è trovato con la pistola alla tempia, di chi è fuggito dai ribelli e ha passato due giorni a camminare nella campagna, di chi con i bambini soldato ha avuto a che fare, e li ha sentiti raccontare di come sono stati strappati alla loro famiglia e costretti a compiere i crimini più atroci: uccidere il proprio padre, e poi altre decine di persone, o tagliare le labbra a chi aveva parlato troppo, o il naso o le orecchie.

Non ci si crede, davvero, e non ci si crede che tutto questo accadeva pochissimi anni fa, nel silenzio delle nostre televisioni. Non ci si crede a sentire che una bambina disabile è stata cresciuta per 5 anni dalla famiglia insieme alle capre, e lei adesso nell’orfanotrofio fa ancora “beee” la mattina. Quando io ho sentito queste storie ho avuto l’istinto di strapparmi la pelle di dosso, perché nessuna doccia avrebbe mai potuto togliere il senso di inadeguatezza e di impotenza.

Ma poi la risposta a tutti i miei “come hanno fatto, e come fanno” è venuta da loro, senza che glielo chiedessi: nella loro pazienza, nella cordialità, nella semplicità del vivere quotidiano, nella purezza dei rapporti interpersonali, nella possibilità di vivere tranquilli, ora che la guerra è finita, anche se sono poveri, non importa. Tutto questo è insito nel loro essere al livello più profondo, anche se gli influssi occidentali si fanno sentire e qualcuno spende un occhio della testa per un televisore al plasma o un cellulare touchscreen. È così radicato che il loro saluto non è ciao, o buongiorno, ma “hello, how are you?”, chiunque tu sia, a prescindere che non ti abbiano mai visto prima. Ed è così naturale, che addirittura una paziente, gravida e dispnoica, fuori dal pronto soccorso dell’ospedale prima di chiedermi dove era l’ingresso mi ha chiesto come stavo.

E ancora di più, la risposta mi è stata data da tutti quegli Italiani che sono andati lì per pochi mesi, e si sono ritrovati a prendere la residenza ugandese.

Il momento più difficile però è stato tornare in Italia, vedere quanto tutto sia diverso, sopravvalutato e superaccessoriato, rispetto alle cose essenziali che abbiamo avuto modo di apprezzare stando lì. E come, nonostante anche noi siamo pieni, ma di cose, non sappiamo sorridere trasmettendo la pace e la serenità con cui lo fanno loro.

* 24 anni, di Viterbo, neo laureata in Medicina e Chirurgia, sede di Roma