di Damiano Palano*

Dinanzi ai risultati delle elezioni spagnole è quasi inevitabile riconoscere il tramonto di una stagione politica. Come hanno sottolineato molti osservatori, il voto ha sancito infatti la fine del tradizionale bipartitismo centrato sul Partito socialista (Psoe) e sul Partito popolare (Pp). Un bipartitismo che, anche grazie a un sistema elettorale che penalizza le forze minori, ha di fatto dominato la Spagna dai tempi della “transizione” post-franchista. Ma che è ora uscito sconfitto dalle urne. La ‘frammentazione’ del quadro politico che ci consegnano i risultati è infatti simile a quella uscita dalle elezioni politiche italiane del febbraio 2013, e anche in Spagna si potrà costruire una maggioranza governativa solo con qualche alchimia e al prezzo di molti compromessi.

I risultati spagnoli suggeriscono però anche un’altra domanda, che riguarda in questo caso non tanto la tenuta di un sistema partitico, quanto il destino della forma-partito. Non è infatti possibile liquidare solo come un dettaglio il fatto che Podemos e Ciudadanos - le due nuove forze che sono riuscite a insidiare il bipartitismo – abbiano inalberato fin dalla loro comparsa la lotta contro la «casta» e a favore della partecipazione dei cittadini. Proprio come il Movimento 5 Stelle in Italia, Podemos e Ciudadanos hanno infatti sviluppato una critica indirizzata contro la forma-partito più consolidata: una forma-partito che, naturalmente, non è più quella del vecchio partito di massa novecentesco, bensì quella che molti politologi etichettano come “cartel party”, un partito insediato nelle istituzioni e sempre più lontano dalla società.

Ma le elezioni spagnole ci suggeriscono allora che - insieme al bipartitismo formato da Psoe e Pp - dobbiamo dare per morto anche il partito, come forma organizzata dell’azione politica? Naturalmente sarebbe ingenuo pensare di trarre dai risultati di una singola elezione delle indicazioni su tendenze di lungo periodo. Ma, per quanto le previsioni in questo campo lascino sempre il tempo che trovano, si può tentare di dare una risposta.

Quanto è avvenuto in Spagna nell’ultimo anno si inscrive in un quadro più generale, in cui interagiscono due dimensioni distinte. In primo luogo, si possono leggere i risultati spagnoli come l’ennesima conferma del crescente distacco dei cittadini dai partiti e dalla classe politica: un distacco che si riflette di volta in volta in disaffezione, sfiducia e astensionismo e che non è affatto (come spesso tendiamo a pensare) un fenomeno proprio solo dell’Italia, perché in realtà caratterizza più o meno tutte le democrazie occidentali. In secondo luogo, il responso spagnolo deve essere considerato anche come un effetto della crisi europea: una crisi che ha radici economiche e politiche molto profonde, ma che ha prodotto risultati clamorosi soprattutto nei paesi meridionali dell’Eurozona.

E da questo punto di vista il ‘terremoto’ elettorale spagnolo è solo l’ultimo episodio di una dinamica ‘tellurica’ che ha coinvolto l’Italia, la Grecia, con la scomparsa del Pasok a beneficio di Syriza, e infine il Portogallo nell’ottobre scorso. Le conseguenze della crisi e soprattutto l’impatto delle politiche di austerity hanno per molti versi contribuito a indebolire identità politiche consolidate, o comunque ha indotto una quota significativa dell’elettorato ad abbandonare il partito per cui avevano votato in precedenza. Per un verso, dunque, i risultati spagnoli possono essere considerati come una tendenza che si inquadra dentro un insieme articolato di tensioni, che probabilmente fanno solo esplodere alcuni processi maturati nel corso degli ultimi due decenni. E che davvero ci fanno sembrare le nostre democrazie come “democrazie senza partiti”.

In questo senso si possono dunque leggere nei risultati spagnoli i contorni della crisi di fiducia che investe il “cartel party”, se non altro perché ne emergono i fattori di debolezza, ossia il suo labile legame con la società e il suo rapporto invece simbiotico con lo Stato (e le sue risorse). Ma, al tempo stesso, sarebbe ingenuo dedurre dalla crisi del bipartitismo spagnolo (e dalla crisi di due partiti ‘cartellizzati’ come il Psoe e Pp) la ‘fine’ del partito.

E, al di là degli stessi esiti politici (e del futuro di questa formazione politica), è forse lo stesso profilo di Podemos a mettere in guardia da conclusioni affrettate. Nato dall’iniziativa di un piccolo gruppo di accademici radicali nel novembre 2013, Podemos non rifiuta l’idea del partito, ma per molti versi ne ridefinisce l’immagine sulla base del primato della comunicazione. Ciò che contrassegna fin dall’inizio Podemos è infatti la scelta del piano della comunicazione come terreno su cui condurre la propria battaglia, e a partire dal quale costruire una nuova idea di partito.

Oggi, ha detto per esempio Pablo Iglesias, fondatore e leader carismatico di Podemos, «la gente non milita nei partiti», ma «nella radio che ascolta». In questo senso, Iglesias e Podemos rompono con la visione consolidata secondo cui i partiti non sarebbero più in grado di svolgere una reale azione di rappresentanza delle istanze della società, e secondo cui dunque la “forma-partito” sarebbe inevitabilmente destinata a essere superata dalle reti informali e dalle connessioni fluide dei movimenti. Contro questa lettura Podemos ripropone piuttosto – seppur rivisitandola, e partendo dal riconoscimento della centralità della comunicazione come dimensione in cui si costituiscono le identità politiche – l’idea che il partito sia ancora uno strumento imprescindibile per fare politica. Uno strumento che, peraltro, non può fare a meno né di una leadership né di un’organizzazione. E che proprio per questo può puntare a conquistare «potere istituzionale».

Naturalmente rimane in questo momento difficile immaginare cosa avverrà nel futuro di questo singolare esperimento politico. Ed è ancora più difficile prevedere se, alla prova dei fatti, la «guerra di posizione» di cui parla Podemos si rivelerà soltanto una variante radicale di storytelling, o sarà davvero in grado di ottenere risultati significativi. Ma, al di là di tutti questi interrogativi, potremmo forse chiederci se, con l’affermazione di Podemos, le elezioni spagnole, oltre a sancire la fine del vecchio bipartitismo, non ci abbiano anche consegnato il ritratto di un nuovo tipo di partito.

* docente di Scienza politica, facoltà di Scienze politiche, Università Cattolica (sede di Milano e di Brescia), autore di “La democrazia senza partiti” (Vita e Pensiero 2015)