Ivo Musajo Somma *

Stazione Centrale di Milano: in una rigida mattina invernale scendono dal diretto proveniente da Parigi due giovani un po’ spaesati e male in arnese che parlano un francese dallo strano accento. È il febbraio del 1924 e i due viaggiatori sono Leonid Gančikov (nella foto a sinistra) e Pavel Sokolov: entrambi hanno alle spalle anni di guerra e di esilio e hanno lasciato Parigi, praticamente tagliandosi i ponti alle spalle, spinti dalla speranza di una borsa di studio per terminare finalmente i loro studi universitari, lasciati in sospeso quasi dieci anni prima. Sembra che il papa, Pio XI, sia intervenuto di persona perché vengano assegnate borse di studio a favore dei giovani esuli che, in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre e alla guerra civile, sono stati costretti a lasciare la Russia.

Per questo motivo Leonid e Pavel si avviano subito, a piedi, verso l'Università Cattolica del Sacro Cuore, fondata da pochissimi anni nella sede di via Sant’Agnese. Avevano conosciuto la Grande Guerra, la Rivoluzione, le battaglie disperate con l’Armata bianca durante la guerra civile e le peregrinazioni e le ristrettezze della vita da esuli. Ora, la possibilità di riprendere gli studi, e con essi il filo di un’esistenza bruscamente interrotta e come spaccata in due, sembra un sogno. Giunti in segreteria i due giovani mostrano i documenti e le lettere di presentazione in loro possesso e spiegano di essere studenti russi interessati a ottenere la borsa di studio concessa dal Pontefice. Evidentemente a Parigi erano arrivate informazioni imprecise… Le segretarie, infatti, non comprendono di cosa si stia parlando e dichiarano di non poterli purtroppo aiutare. Gančikov e Sokolov escono dall’Ateneo e vanno a sedersi su una panchina: non sanno cosa fare, il mondo gli è caduto addosso. Intanto, grazie a uno scrupolo provvidenziale, la responsabile della segreteria contatta il Rettore, Padre Agostino Gemelli, e gli racconta quanto appena accaduto. Gemelli, pur confermando che di tali borse di studio non si era mai sentito parlare, chiede alle segretarie di andare subito a cercare i due e di portarli da lui.

Finalmente la sorte da amara si muta in benevola: Gemelli parla a lungo con Gančikov e Sokolov, si fa raccontare la loro storia e promette che cercherà di aiutarli: nel frattempo, vista la situazione alquanto precaria in cui si trovavano, li fa ospitare nella mensa universitaria e trova loro anche un tetto provvisorio presso l’Opera Cardinal Ferrari. Di lì a qualche giorno arriva finalmente la notizia che, per decisione del Rettore e con i fondi a disposizione di quest’ultimo, l'Ateneo concede le borse di studio. È l’inizio di una rinascita.

Questa bella storia, che ha qualcosa di romanzesco e risale alle origini dell’Università Cattolica, è ben poco nota: la Biblioteca è perciò molto grata ad Anjuta Gančikov, figlia di Leonid (in Italia il nome di battesimo sarebbe stato poi italianizzato in Leonida), per averle messo gentilmente a disposizione il testo nel quale ha raccolto ricordi e memorie di famiglia. Il primo incontro con la figura di Leonid Gančikov è però avvenuto grazie alla segnalazione del Dott. Michail Talalay. Membro dell’Accademia Russa delle Scienze e recentemente insignito dal Patriarca di Mosca Kirill del premio “Metropolita Makarij” per le migliori pubblicazioni di carattere storico, Talalay dedica i suoi studi alla storia dei contatti culturali tra Russia e Italia: sebbene la sua produzione sia prevalentemente in lingua russa, va ricordato almeno lo splendido libro  in edizione trilingue, italiana, tedesca e russa, dedicato alla storia della comunità russa di Merano, scritto in collaborazione con Bianca Marabini Zoeggeler (Raetia, Bozen 1997). Lavorando attualmente a un volume dedicato al profilo umano e scientifico di Leonid Gančikov, Talalay può confermare come la discussione della sua tesi di laurea in Storia e Filosofia, nel 1927, si fosse trasformata in una corale, appassionata manifestazione di solidarietà verso il collega russo da parte degli studenti della Cattolica che gremivano l’aula, solidarietà che voleva idealmente abbracciare tutti gli esuli che avevano lasciato la Russia in seguito alla rivoluzione.

Continua a leggere

Leonid Gančikov era nato nel 1893 a Tver’: la famiglia – il padre era ingegnere – si era poi trasferita a Varsavia e a San Pietroburgo. Nel 1916, quando Leonid era  iscritto al secondo anno di università, arrivò per lui e per il fratello Evgraf il richiamo alle armi, con la scuola ufficiali e, quindi, il fronte. Dopo la rivoluzione e la presa del potere da parte dei bolscevichi, la famiglia si trasferì a Groznyj; nel frattempo era iniziata la guerra civile e nel 1919, quando l’Armata bianca occupò la Cecenia, Leonid ed Evgraf, in quanto ex ufficiali dell’esercito russo, si trovarono obbligati a presentarsi al comando di Baku (nell’attuale Azerbaigian) e a rientrare in servizio attivo. Seguirono lunghi mesi a cavallo, nel tentativo disperato di arrivare fino a Mosca, abbattere il bolscevismo e restaurare la monarchia, fino a quando ciò che rimaneva dell’Armata bianca, al comando di una figura entrata nella leggenda, il barone Pëtr Vrangel’ (sul quale la Biblioteca mette a disposizione degli studiosi la recente biografia di Anthony Kroner: The white knight of the Black Sea: the life of general Peter Wrangel), si trovò respinto sulle coste della Crimea: senza più speranza di vittoria, si trattava ormai soltanto di evacuare i soldati e i civili al loro seguito, in tutto una folla di circa 150.000 persone. Alla vigilia della partenza, che segnava il distacco definitivo dalla patria, Vrangel’ indirizzò alle truppe un messaggio nel quale offriva l’unica possibilità rimasta: mettere tutti in salvo salpando alla volta del Bosforo, mentre d’altra parte chi voleva avrebbe potuto scegliere, a suo rischio e pericolo, di restare. La guerra era perduta, nessuna prospettiva, nessuna concreta promessa di aiuto da parte delle potenze occidentali, nessun futuro; solo, prometteva il generale, la possibilità di restare insieme e cercare in qualche modo un altro avvenire. Le memorie di Anjuta Gančikov ci riportano le parole del padre nel ricordo di quei momenti: «Per tante volte avevamo visto la morte in faccia, avevamo subito malattie, ferite, avevamo marciato sotto il tiro nemico, quegli ultimi anni di vita ci avrebbero dovuto indurire, eppure piangevamo tutti».

Requisite le navi della flotta del Mar Nero, alle quali si erano aggiunte innumerevoli imbarcazioni di ogni genere e di tutte le dimensioni, nel novembre 1920 ebbero inizio le ordinate operazioni di imbarco, un esodo russo che nel giro di alcuni giorni portò tutti in salvo verso Costantinopoli: sull’ultima nave, il generale Vrangel’. Il Primo corpo d’armata – al quale apparteneva Gančikov – trovò sistemazione in un campo profughi vicino a Gallipoli: qui, dopo un momento di comprensibile spaesamento, i comandi militari, anche grazie ai pur modesti aiuti offerti dalla Francia, seppero creare un efficiente campo ben disciplinato e dotato di spazi comuni, cucine, ospedale, servizi igienici, nonché di un acquedotto. Assicurata una dignitosa sopravvivenza, si rivelava indispensabile preservare l’orgoglio di un esercito vinto, ma sempre fiero, e al contempo la cultura, la lingua, le tradizioni: in una parola l’identità russa, anche lontano dalla patria. Furono costruite chiese e un piccolo teatro all’aperto, un asilo e una scuola per i bambini, si cominciò a pubblicare un giornale e presero vita diverse attività sportive: era il "miracolo di Gallipoli" (cfr. Kroner, p. 354). La Pasqua del 1921 fu solennemente celebrata secondo i riti dell’ortodossia russa. Era nata sui Dardanelli una piccola Russia fuori dalla Russia, come quelle che stavano nascendo in altri luoghi, soprattutto a Parigi, dove i conti russi sbarcavano il lunario come tassisti e interi reparti della Renault parlavano russo. «Tutti, credo, eravamo fieri del grande lavoro che era stato fatto» ricordava Gančikov, che fu anche tra i promotori della cosiddetta Libera università di Gallipoli, ossia un ordinato programma di corsi autogestiti nei quali chi aveva competenze in una determinata disciplina teneva lezioni per i commilitoni. Parigi era anche il luogo dove i fratelli Leonid ed Evgraf desideravano andare una volta conclusosi il lungo soggiorno nel campo di Gallipoli; ottenuti i documenti necessari, dopo un viaggio per nave attraverso vari porti del Medio Oriente e Napoli raggiunsero la Francia sbarcando a Marsiglia il 7 marzo 1923. Ben presto Evgraf Gančikov ottenne dal governo francese una borsa di studio per la facoltà di Chimica presso l’Università di Poitiers, mentre Leonid dovette trovare il modo di cavarsela diversamente, perché simili sussidi non erano previsti per le materie umanistiche… Si adattò quindi a fare il facchino, prima al mercato di Les Halles e poi alla Gare de Lyon. Dopo circa un anno, la partenza per l’Italia, alla volta di Milano, con l’amico Pavel Sokolov.

Siamo così tornati all’inizio della nostra storia: poiché l’anno accademico era già incominciato, fu loro concesso di iscriversi al successivo, ma di frequentare fin da subito le lezioni, compreso uno speciale corso di lingua italiana per loro appositamente richiesto da Padre Gemelli, che si prese a cuore la loro situazione e li aiutò in tutto e per tutto. In un secondo tempo i due furono raggiunti a Milano da un terzo studente russo, Pëtr Spasskij (1896-1968), un altro reduce dell’armata di Vrangel’ che aveva prestato servizio nei reparti dei Cosacchi del Don e più avanti si sarebbe fatto un nome come direttore del coro della cattedrale ortodossa russa di Parigi, in Rue Daru. Sokolov (1892-1964) avrebbe invece lasciato Milano alla volta della Puglia, dove gli sarebbe stata affidata la cattedra di Lingua e letteratura russa all’Università di Bari. «Si può ben dire – osserva Michail Talalay – che i tre studenti russi che arrivarono a Milano nel 1924, trovando un rifugio e un porto sicuro all’Università Cattolica, diedero poi, negli anni a venire, buona prova di sé».

Leonid Gančikov, dimostrando in questo una fine sensibilità intellettuale, discusse la sua tesi di laurea (con relatore il Prof. Emilio Chiocchetti) su un filosofo russo che allora non era noto come oggi: Vladimir Solov’ëv.  Nei primi passi dopo la fine degli studi, la vicinanza dell’Università Cattolica non gli venne a mancare; i colleghi raccolsero una consistente somma di denaro che gli offrirono come regalo di laurea insieme a un toccante biglietto, nel quale si legge tra l’altro: «Noi sappiamo che Lei supererà ogni difficoltà, ma sappiamo pure che le prime lotte sono le più dolorose, e vogliamo restare per Lei amici e fratelli come divenimmo in questi anni di serena ricerca della Verità, come lo vuole la fraternità cristiana che non conosce le barriere innalzate dagli uomini e dalla lontananza». Gli stessi colleghi lo aiutarono anche procurandogli delle lezioni private presso le famiglie di amici e conoscenti, mentre anche Padre Gemelli gli procurò delle supplenze.

Non è possibile qui ripercorrere tutte le tappe successive nella vita di Leonid Gančikov, che divenne in seguito uno stimato slavista prima presso l’Università La Sapienza di Roma e poi presso l’Università di Pisa, nonché un importante curatore di classici della letteratura russa in edizione italiana.

La Biblioteca d’Ateneo, oltre a scritti diversi e alle opere da lui curate, conserva il suo volume Orientamenti dello spirito russo, apparso nel 1958, in apertura del quale descrive il nucleo del pensiero russo nei termini di una sorta di radicalismo spirituale teso verso l’unità sostanziale della vita.

Quella di Leonida Gančikov (1893-1968) si configura dunque come la straordinaria storia di un esule che trovò il suo compimento in Italia ed ebbe un punto di svolta – che non si può definire se non provvidenziale – nell’esperienza di studio e di vita presso l’Università Cattolica.

* Cattolica Library