In Italia quando si parla di conciliazione famiglia-lavoro non sono chiari gli obiettivi e le famiglie si trovano a tenere insieme i pezzi di questa difficile composizione. Egidio Riva, docente di Sociologia delle differenze e delle diseguaglianze alla facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Ateneo, usa queste parole per presentare uno dei temi al centro della 7th Work and Family Conference”, promossa dalla rivista “Community, Work & Family” , che si terrà dal 24 al 27 maggio nella sede di largo Gemelli.

«L’Italia è un paese sempre più vecchio. Questo vuol dire che le famiglie si trovano soprattutto ad affrontare problemi legati alla cura degli anziani, specie se non autosufficienti» afferma il professor Riva, che coordina l’organizzazione della conferenza internazionale. «Molte famiglie si devono occupare contemporaneamente della cura dei figli piccoli e dei vecchi. Il problema della conciliazione famiglia-lavoro significa prevalentemente cura di anziani e minori compatibilmente alla partecipazione al mercato del lavoro. Questa è una cosa importante e che non si dice mai. Spesso si pensa solo ai figli ma non è così».

Esistono politiche di intervento in questo ambito così delicato? «Sono molto poco generose. Le famiglie non sono protette né incentivate ad avere figli o a prendersi cura dei propri cari. I servizi sono poco diffusi e costosi, hanno una qualità media ma non di eccellenza e questo vale sia per la cura dei figli che per quella degli anziani. Quindi le famiglie tendono ad arrangiarsi. Negli anni passati hanno fatto ricorso da una parte al badantato e, dall’altra, a servizi garantiti da baby sitter o altro genere di supporto. All’interno delle aziende le politiche per la conciliazione sono poco diffuse, soprattutto in quelle più grandi, che hanno forza lavoro qualificata e che impiegano un’alta quota di lavoro femminile. Il quadro è abbastanza desolante».

Negli ultimi anni si è parlato molto di Welfare aziendale. «La realtà delle cose è che si tratta ancora di esperienze limitate alle aziende forti dei settori forti o, se si vuole porla in un altro modo, ai lavoratori forti delle aziende forti. Gran parte delle famiglie, specie quelle composte da lavoratori manuali o operai, con contratti di lavoro precari, scontano una duplice disuguaglianza. Questo è dato dal fatto che il Welfare è poco generoso e al contempo le imprese sono poco generose».

È giusto dire che in ambito europeo siamo in ritardo rispetto a tanti Paesi? «Generalmente, se si analizza il welfare pubblico, i Paesi come l’Italia vengono classificati nel modello cosiddetto mediterraneo. Si dice che molta enfasi è posta sull’importanza della famiglia, ma i servizi dati alla famiglia perché eserciti questo suo ruolo di cura sono molto pochi. La famiglia è sostenuta a parole e non con i fatti. Se si guarda invece ad altri Paesi, come il Regno Unito, si vede che si è seguito negli anni un’altra tipologia di intervento, che è quella garantita dalle imprese».
 
Quali sono i Paesi europei che gestiscono meglio la conciliazione? «Sul piano delle politiche pubbliche i Paesi del nord Europa sono oggetto di studio da 30 anni a questa parte. Sono intervenuti sia con i servizi che con generosi congedi. Significa che le famiglie possono scegliere se affidare i propri figli e i propri anziani ai servizi di cura o farsene carico direttamente. In Italia tutto questo non è accaduto».

Ma potrebbe accadere? Il problema di fondo è capire che obiettivi si vogliono conseguire. I Paesi del nord Europa avevano scelto di garantire dei diritti ai bambini, agli anziani e ai soggetti curati, e offrire pari opportunità alle donne, non solo nella famiglia ma anche sul mercato del lavoro. E quindi hanno operato di conseguenza. In Italia quando parliamo di conciliazione mi sembra non sia ben chiaro con quali finalità vogliamo operare. Per esempio, se il problema è trovare una parità di genere, le politiche italiane non la garantiscono assolutamente.

In che senso? «C’è stata la riforma per i giorni di congedo parentale concessi al padre: in gran parte dei Paesi europei c’è una quota di congedo parentale riservata per diritto al papà, talvolta è anche un obbligo che stia a casa. Per garantire uguali possibilità anche alle donne. In Italia invece il padre può beneficiare di due giorni. È una scelta chiara: il carico spetta alle donne. Da noi l’obiettivo era quello di attribuire un ruolo alla famiglia, ma questo doveva essere a carico dello Stato, che però si è ritratto progressivamente e le famiglie si sono organizzate da sé. Senza un obiettivo chiaro mancano politiche chiare».

Esistono differenze territoriali e di tipologia d’azienda nel nostro Paese per quanto riguarda la conciliazione? «Se si parla di tempo, la flessibilità oraria è diffusa in aziende e territori di un certo tipo. Per esempio nei settori della finanza, in parte nella manifattura. Sicuramente nelle aree del centro-nord e sicuramente nella pubblica amministrazione. Non c’è una diffusione uniforme sul territorio. Molto dipende dal profilo della forza lavoro: il lavoro manuale impiegato nei servizi ha poca flessibilità, il lavoro specializzato nelle industrie del terziario avanzato al contrario ne ha. Questo vale per tutti gli strumenti di conciliazione, che siano indennità o trasferimenti monetari, servizi, flessibilità oraria o attività di formazione o comunicazione. C’è una disparità evidente tra Nord e Sud, uomini e donne, lavoro qualificato e non, settori chiave e quelli marginali».

Le aziende possono intervenire direttamente per favorire la conciliazione o è compito solo delle politiche? «Le aziende dovrebbero essere interessate non tanto a lasciare a casa i lavoratori ad occuparsi della famiglia ma a metterli nelle migliori condizioni di svolgere il proprio ruolo. Mi stupirei del contrario. Le imprese che vedono nella inconciliabilità tra famiglia e lavoro un ostacolo alla produttività del lavoratore intervengono in qualche modo, ma mai daranno un congedo lungo e generoso per stare a casa. Sarebbe contro il loro interesse. Sono davvero poche quelle che usano la conciliazione come una leva strategica per generare profitto, motivazione, appartenenza, produttività. Da noi sono le famiglie che cercano di mettere insieme i pezzi. L’azienda dovrebbe avere interesse in altre questioni; se vede che la difficile conciliazione diventa un ostacolo interviene, ma non lo fa di default perché non lo ritiene compito suo».