Una pandemia non l’aspettava sicuramente nessuno. Nemmeno, per quanto sempre pronti e educati, nelle aule e in tirocinio, a prepararsi a ogni “allerta”, i medici più giovani, particolarmente i neolaureati, in questa emergenza direttamente "in campo" senza dover sostenere l’esame di abilitazione. Abbiamo raccolto alcune delle loro storie


«Finora le pandemie le avevo sempre lette nei libri, questa è la prima volta che la mia generazione la affronta direttamente». Lo sa bene Francesca Raffaeli, dottoranda di ricerca al secondo anno del dottorato in Clinica cellulare e molecolare, indirizzo infettivologico, che al tempo del Covid è diventata dirigente medico nell’Unità operativa complessa di Malattie infettive alla Fondazione Policlinico Gemelli Irccs.

Qual è stata la prima sensazione che ha provato all’annuncio dell’emergenza sanitaria e com’è cambiata la sua vita professionale in reparto e nell’assistenza quotidiana? «Le emozioni e i pensieri iniziali sono stati contrastanti: da un lato la preoccupazione per noi tutti e soprattutto per le persone a noi più care, ai nostri genitori e nonni e alle persone più fragili. Poi, però, emozione perché sapevo che avrei potuto in qualche modo contribuire ad affrontare questo nostro nemico comune. Prima del Coronavirus, ero iscritta al secondo anno del dottorato di ricerca, per cui la mia routine era per lo più focalizzata sulla ricerca clinica. Poi il professor Roberto Cauda mi ha offerto la possibilità di contribuire sul campo, in prima linea. Emozionata della fiducia e dell’opportunità datami, ho accettato senza neanche pensarci un momento. Oggi le mie giornate sono fatte di ospedale, mascherine, visiere, guanti e sovracamici, colleghi e pazienti. Ma sono pronta per affrontare tutto con impegno, emozione, preoccupazione e orgoglio al tempo stesso». 

La UOC di Malattie infettive è, per vocazione, competenza e professionalità, sempre pronta in questo campo. Ma com’è modificato l’approccio clinico e scientifico di fronte a questa particolare e sfidante pandemia? «Le Malattie infettive rappresentano davvero una vocazione per noi infettivologi. Hanno da sempre hanno avuto un impatto determinante sulla storia dell’umanità, in qualche modo avendo una relazione particolare anche con il grado di povertà di alcune popolazioni. In generale, quindi, anche prima di questa pandemia, essere infettivologi significa essere al fianco delle popolazioni più fragili, senza alcuna distinzione. Oggi, tuttavia, la pandemia da Sars-CoV-2 ha coinvolto la nostra quotidianità e stravolto drasticamente la routine di tutti. Per i più giovani come me è la prima volta che ci si trova ad affrontare qualcosa di simile. Dal punto di vista professionale, siamo tutti scesi in campo in prima linea mettendo da parte gli orari lavorativi e all’occorrenza il riposo, con l’unico obiettivo e pensiero di mettersi a disposizione di chi purtroppo è stato coinvolto, dimenticando anche la paura di essere un giorno noi stessi i pazienti da curare. Allo stesso modo, ciò rappresenta una sfida dal punto di vista scientifico. Abbiamo bisogno di capire, in tempi rapidi, come diagnosticare, trattare e prevenire al meglio questa malattia». 

Vuole raccontarci un episodio, un dialogo, una fra le esperienze personali più significative di questi giorni? «Sono innumerevoli le esperienze personali vissute in questi giorni, da quelle peggiori, che purtroppo non mancano, a piccoli successi umani. In questo contesto preferisco condividere un’esperienza positiva, quella vissuta con una donna che dopo anni di tentativi è rimasta incinta e ha contratto il Coronavirus nei primi mesi di gravidanza. Per questo motivo, è stata isolata dalla famiglia e dal marito, rimasta da sola ad affrontare questa preoccupante condizione. Durante una valutazione clinica ed ecografica, tuttavia, è stata effettuata una ecografia fetale in video-chiamata con il marito: insieme hanno potuto vedere il loro futuro bimbo, tra le lacrime di gioie».

Cosa sta imparando e cosa pensa che ci lascerà questa esperienza, come professionisti e come persone? «Personalmente, sto conoscendo la fragilità e la forza, allo stesso tempo, del genere umano. La natura e le malattie infettive hanno da sempre un impatto notevole sulle nostre vite, ma è incredibile come noi, essere umani in primis, e i sanitari in particolare, siamo improvvisamente diventati un’unica squadra, un’unica famiglia che insieme combatte per lo stesso risultato. Questa esperienza, ancora una volta, ci sta insegnando come lo spirito di gruppo sia sempre fondamentale, che solo insieme e uniti si vince. Ciò sta facendo in modo che anche i nostri rapporti professionali e umani si stiano rafforzando, perché il nuovo modo di collaborare fa sì che ognuno si fidi di più dell’altro, ognuno è la spalla su cui trovare conforto. Lo eravamo, ma oggi ancora di più siamo una grande famiglia. Sicuramente, questa esperienza ci insegna che dovremo continuare a esserlo sempre, tutti i giorni, a lavoro, e nella nostra vita privata».


Secondo di una serie di articoli dedicati ai nostri medici in prima linea nella lotta al Coronavirus