di Marco Di Francesco *
“Dall'Africa non ti stacchi mai. Dopo che l'hai conosciuta, la vita diventa un pendolarismo tra mondi infinitamente lontani che pure stan lì, sotto di noi, a tiro di un viaggio che non comporta nemmeno salti di fusi orari. E sempre il riadattamento più difficile è quello con il Nord, così come il desiderio più testardo abita sempre a Sud. Un desiderio difficile da spiegare a chi vede arrivare in Europa africani in fuga sui barconi della disperazione. A Nord la ricchezza, ma anche le facce annoiate, un eterno coprifuoco sorvegliato da videocamere, l'invasione del superfluo, una frenesia che non lascia più spazio al pensiero e al sentimento. A Sud la miseria e lo sfruttamento, ma anche la solidarietà, il sorriso, il piacere dimenticato della pigrizia, le strade piene di vita e di gente. E poi lo spazio immenso, la luce, i colori...”.
Rubo dal libro “Il bene ostinato” di Paolo Rumiz queste parole, che hanno la straordinaria capacità di sintetizzare cosa sia l’Africa e come sia in grado di cambiare la percezione del mondo e la scala di valori per chi la vive. Visitare l’Africa non significa viverla. È questa la differenza tra un semplice viaggio e il Charity Work Program che io ho svolto al Benedict Medical Center di Kampala, dove per 30 giorni il luogo che ti ospita si vive attraverso le storie, i vissuti, i sorrisi e le lacrime delle straordinarie persone che si incontrano, cariche di una gioia e una spontaneità che nel nostro frenetico mondo occidentale abbiamo dimenticato da tempo.
Col passare delle settimane scopri che tutti i problemi insormontabili che crediamo di avere si fanno piccoli piccoli se visti da questo continente: “un luogo dove tutto è vita, vita che sovrasta altra vita, dove tutto cresce, si trasforma, prende il sopravvento e poi svanisce con un'irruenza che costringe a cambiare i nostri parametri di sensibilità.”
Il privilegio di chi studia medicina è vivere l’opportunità che offre questo programma in un ospedale, dove si intrecciano la straordinarietà di una vita che nasce e il dramma di una che muore, dove le emozioni e l’essenza più profonda delle persone viene fuori. Si rimane senza parole davanti a come la sofferenza e il dolore qui a Kampala, al Benedict Medical Center, siano gestiti, dai medici come dai pazienti, con una compostezza e un’umiltà incredibile, forse perché queste sono rimaste le uniche armi per non rimanere schiacciati dalla realtà di un mondo a volte troppo ingiusto.
Si torna a casa con un bagaglio di conoscenze pratiche prezioso, che difficilmente un normale studente riesce ad acquisire in così poco tempo durante il proprio corso di studi. Ma quanto di più importante si riporta in Italia è l’affetto delle persone che ci hanno accolto e dei medici che ci hanno insegnato cosa significa dedicarsi con passione, ogni giorno, alla comunità in cui si vive.
* 21 anni, di L'Aquila, terzo anno del corso di laurea in Medicina e Chirurgia, facoltà di Medicina e Chirurgia, campus di Roma