Nell’ambito della storiografia italiana l’antisemitismo fascista è stato sostanzialmente assente o, meglio, ha costituito «una presenza non più che rapsodica, rappresentando un formidabile cono d’ombra su cui solo in tempi relativamente recenti la fiaccola dell’attenzione degli studiosi ha cominciato a rilucere con continuità ed intensità adeguata». Lo ha sostenuto Saverio Gentile, ricercatore di Storia del diritto medievale e moderno, nel suo intervento al Seminario permanente dei ricercatori, promosso dal dipartimento di Scienze giuridiche in occasione della Giornata della memoria.

Evocato per la prima volta da Benito Mussolini nel febbraio del 1938, il «problema ebraico» caratterizzò il sedicesimo anno del regime fascista e segnò indelebilmente, dal punto di vista politico e giuridico, il Regno d’Italia. Nelle «fiamme dell’estate di quell’anno»,da alcuni definito «cruciale e terribile per l’ebraismo europeo», l’Italia diveniva ufficialmente uno Stato razzista. 

Allo sviluppo di tale assetto istituzionale contribuì anche una sorta di legittimazione pseudo-scientifica, sintetizzata nel delirante decalogo contenuto nel “Manifesto degli scienziati razzisti” del 14 luglio 1938 che enucleava una suddivisione in razze umane scientificamente del tutto infondata ma funzionale agli scopi del regime. Anticipata da una serie di pubbliche prese di posizione del Duce e del Gran Consiglio del Fascismo, nonché da una campagna di stampa molto aggressiva, la legislazione antiebraica venne posta in essere a far data dal settembre del 1938. 

Essa costituì senza dubbio la pagina di gran lunga più buia e infame dell’intera storia politico-istituzionale italiana, segnando l’apice dell’eversione giuridica fascista. Contro quelli che la normativa definiva «cittadini italiani di razza ebraica» sul piano del diritto venne mossa una durissima offensiva, dapprima attraverso lo strumento legislativo (su tutti il R.D.L. 17 novembre 1938 n. 1728, Provvedimenti per la difesa della razza italiana) e poi mediante circolari amministrative, segnando la sua paurosa e devastante climax nel periodo repubblichino. A partire da una ricca ricerca archivistica e un’attenta lettura di alcuni documenti inediti (in particolare provvedimenti amministrativi e giudiziari dell’epoca fascista),Gentile ha ben messo in evidenza, nella loro cruda materialità, le storture di un potere pubblico ammantato di legalità ma esercitato in palese violazione dei diritti fondamentali dell’individuo, dell’uguaglianza e della dignità umana. 

In questo senso l’elaborazione storico-giuridica della complessità di quegli eventi induce a rimeditare la ben nota lettura crociana che avallò l’idea di un fascismo di natura non più che parentetica nella storia d’Italia, nonché a considerare datati i tentativi volti alla «defascistizzazione retroattiva del fascismo». Ripercorrendo alcuni passaggi decisivi, nella relazione di Gentile è invece emerso come l’antisemitismo non rappresentò una piccola parentesi entro una più grande: il passaggio dal razzismo imperial-coloniale (momento realmente cruciale) all’antisemitismo si inserì, infatti, in un ben definito percorso politico-ideologico-giuridico.

Nel modello fascista entrambi gli elementi (razzismo coloniale e antisemitismo) costituirono, infatti, un unicum mediante il quale accelerare il processo totalitario e, quindi, rinsaldare ideologicamente il regime nonché conferire al fascismo «ormai invecchiato al potere, un nuovo dinamismo». Si tratta, come noto, di una vexata quaestio che ha fatto versare fiumi di inchiostro e che, in tempi recenti, da parte di alcuni è stata risolta prospettando l’ineludibilità della scelta antisemita da parte del regime laddove altri hanno sottolineato il carattere decisivo rivestito dall’alleanza fascista con l’assetto nazionalsocialista. Pur alla luce del carattere mimetico peculiare al razzismo fascista, e che fin da subito apparve ben chiaro ai contemporanei, l’esigenza di garantirne l’affrancamento dalla matrice nazista portò la propaganda a veicolarlo come un esito genuino della tradizione “italica”. Da questa prospettiva emerge con evidenza l’opportunismo politico che connotò la scelta mussoliniana, soprattutto se essa viene raffrontata all’impianto esplicitamente ideologico sotteso alla posizione hitleriana. 

Al radicamento della versione fascista dell’antisemitismo contribuì altresì, come opportunamente messo in luce da Gentile, una parte non minoritaria della società italiana, anche in virtù dell’adesione (ai più svariati livelli) degli intellettuali e, tra costoro, ovviamente anche dei giuristi. In modo particolare va segnalato come la scienza giuridica assunse sovente un atteggiamento silente e complice, in ciò non palesando alcuna differenza rispetto al resto della popolazione italiana «ariana». 

Nel denso dibattito articolatosi al termine della relazione sono emersi molti spunti connessi ai temi trattati quali, ad esempio, il complesso rapporto fascismo-nazionalsocialismo e i riflessi delle politiche razziste di matrice fascista su molte dimensioni della società italiana, ivi compreso il mondo accademico nel suo complesso.

In sostanza, dal seminario è emersa una volta di più la consapevolezza che di quel passato tragico non deve spegnersi la memoria, soprattutto in un contesto come quello odierno ove persistono e vanno intensificandosi inquietanti fenomeni di odio e di intolleranza razziale. Ma insieme si dovrà serbare ricordo delle molte figure di pubblici funzionari, magistrati e giuristi che, contrariamente all’atteggiamento dominante e pagando di persona, non chinarono il capo.
Appare, quindi, vieppiù attuale l’ammonimento di George Santayana (esposto al museo di Auschwitz): “Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo”.