di Alberto Ciresola *
Partire per un’esperienza con il Charity Work Program significa lasciare tutto ciò che è abituale, quotidiano per mettersi alla prova e sfidarsi. In una parola: vivere.
È la vita il banco di prova in cui mettere in pratica ciò che si è imparato nelle aule universitarie. Vivendo un’esperienza di volontariato in Nepal ci si rende conto di quanto sia molto più facile apprendere nozioni, imparare strategie d’intervento, studiare. Risulta invece piuttosto complesso applicare il proprio bagaglio di conoscenze all’esperienza.
Quando ci si accorge che tutto ciò che si è imparato può essere solo in parte messo in pratica, non resta che rimboccarsi le maniche e mettersi in ascolto per ricominciare ad apprendere.
Si impara a vivere in un contesto diverso: il fascino dei templi induisti e buddisti è mescolato all’odore di spezie e smog di vecchie motociclette che sfrecciano senza sosta per le strade caotiche di una capitale asiatica. Le scimmie e le mucche per strada sono all’ordine del giorno e dopo qualche tempo si smette di guardarle con gli occhi incantati e straniti di bambino. Le persone si lavano spesso nelle fontane pubbliche e non c’è da scandalizzarsi se usano lo stesso sapone per la loro pelle olivastra, per i vestiti e per lavare gli animali.
In Nepal ci si scontra con una realtà molto dura, quella della povertà. Fatta di case e ospedali distrutti dal terremoto che a stento vengono ricostruiti. Di città d’oro che non riescono ad attrarre turisti, perché escluse dai progetti di ricostruzione. Di nepalesi che contrattano cifre che sembrano irrisorie, ma che fanno la differenza per chi uno stipendio a stento ce l’ha.
Nonostante si chieda un cibo no spicy, al tavolo arriverà un piatto molto piccante, anche se per i palati nepalesi non lo è.
Avere un compagno di viaggio è fondamentale. Supporta (e sopporta), fa da specchio di confronto e incoraggia quando si pensa di non farcela.
In Nepal si impara a dare un valore alle cose, anche se è complesso fare le conversioni monetarie perché i numeri nepalesi non assomigliano a quelli arabi. Un valore non solo economico: si scopre che la felicità non è nel possedere, ma nell’apprezzare quello che si ha. Lo si capisce quando, entrando nella piccolissima sede di un’associazione di ragazzi ciechi, non si vede una stanza fatiscente e confusionaria, ma si coglie la bellezza dell’Amore fraterno e dell’aiuto reciproco tra compagni.
Si impara ad accogliere l’Altro senza pregiudizi, soprattutto nei momenti più faticosi e di stanchezza.
Si impara a essere cittadini del mondo. Cittadini non solo di quel mondo globalizzato di cui tanto i giornali patinati parlano, ma di un mondo che si sente così lontano che sembra non ci appartenga.
Si impara che siamo tutti uguali. Siamo umani.
Si impara a vivere, nonostante si pensi di sopravvivere.
* 24 anni, originario di Verona ma milanese d’adozione, laureando magistrale in Media Education, facoltà di Scienze della Formazione, campus di Milano