di Gianluca Pastori *

Il voto negli Stati Uniti si sta rivelando molto più incerto di quanto - alla vigilia - anche i sondaggi più equilibrati lasciavano prevedere. Quello che si configura è, infatti, un testa a testa fra i due candidati alla presidenza, con il rischio che - come accaduto nel 2016 - il voto popolare finisca per tratteggiare una realtà diversa di quella determinata dalla distribuzione dei ‘grandi elettori’.

L’affluenza alle urne molto più alta che in passato - resa possibile dall’ampio spazio dato al voto a distanza e differito - non si è tradotta nell’attesa ‘onda blu’ a favore di Joe Biden.

Che il Partito democratico non sia riuscito a ‘sfondare’ (almeno a livello nazionale) sembra confermato anche dalla distribuzione dei voti per il Congresso, che se premia i suoi candidati alla Camera dei Rappresentanti ma sembra destinato a lasciare il Senato in bilico, prospettando il perdurare di uno scenario di ‘divided government’. Il gran numero di Stati ‘in bilico’ (undici, secondo il modello di AP, più due collegi, uno nel Maine e uno in Nebraska, Stati che non applicano il principio ‘winner takes all’) spiega in buona parte questo stato di cose, anche se in alcuni di questi si è comunque già realizzato il ‘flip’, con Biden che ha rovesciato il risultato ottenuto da Trump nel 2016.

Indipendentemente dell’esito finale, la resilienza del Presidente uscente resta, comunque, un dato significativo. Nonostante le difficoltà che hanno punteggiato quest’ultimo anno di mandato, Donald Trump è riuscito a mantenere larghi margini di consenso anche negli Stati in cui la campagna democratica si è concentrata di più, come la Pennsylvania, che - fra l’altro - è lo Stato natale di Biden. Su questo aspetto hanno senza dubbio influito la fragilità dello sfidante e le ambiguità della sua piattaforma elettorale.

Non è, tuttavia, da sottovalutare la capacità di parlare ‘alla pancia’ del Paese che Trump ha conservato durante i quattro anni passati alla Casa Bianca e che si è dimostrata politicamente pagante anche a causa delle difficoltà che gli Stati Uniti stanno vivendo. Un’eventuale vittoria di Trump non sarà, in ogni caso, ampia come quella del 2016 (attestandosi, nella migliore delle ipotesi, a 297 ‘grandi elettori’ contro i 304 raccolti nel 2016) e la crescita dei consensi per il candidato democratico in tradizionali roccaforti repubblicane (come il Texas, dove, a fronte della sostanziale stabilità del voto pro-Trump, Biden ha raccolto oltre tre punti percentuali più di Hillary Clinton e, termini assoluti, più voti di quanti lo stesso Trump ha raccolto nel 2016) rappresenta un segnale importante sul lungo periodo.

Le grandi incognite restano - oltre all’assegnazione dei voti negli Stati in cui il conteggio è ancora in corso (tutti Stati ‘in bilico’) - l’impatto del voto postale e il comportamento di eventuali ‘elettori infedeli’ (‘faithless electors’). Nel 2016, questi ultimi hanno mosso sette voti, spostandone cinque dalla Clinton a Trump e due nella direzione opposta. Non si è trattato, allora, di spostamenti determinanti ma, nel caso di uno scarto minimo fra i candidati attuali, gli effetti potrebbero essere diversi. La stessa cosa vale - su scala più ampia - per il voto postale.

Particolarmente ’pesante’ in queste elezioni, esso è anche quello intorno alla cui regolarità (specialmente formale) possono sorgere più facilmente contestazioni. Trump per primo, in campagna elettorale, ha ripetutamente evocato la possibilità di ‘frodi massicce’ riguardo al voto postale. Il rischio - in questo scenario - è quello dell’aprirsi di una stringa di contenziosi simili a quello che è seguito al conteggio dei voti in Florida durante le elezioni del 2000, vinte da George W. Bush. È, quindi, possibile che servano ancora diverse settimane prima di giungere al risultato definitivo: proprio lo scenario che - nelle scorse settimane - osservatori e mercati hanno mostrato di temere di più.

* docente di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, facoltà di Scienze politiche e sociali