Il professor Roberto Cauda in missione in UgandaSars, H1N1, Ebola. Al novero delle malattie che hanno contraddistinto il nuovo millennio, si è aggiunto il virus Zika, che prende il nome da una foresta dell’Uganda. Per capire quali rischi stia correndo l’uomo, abbiamo chiesto al professor Roberto Cauda (nella foto in missione proprio in Uganda per il Cesi), direttore dell’Istituto di Clinica delle Malattie Infettive della sede di Roma dell’Ateneo e direttore del Centro di Ateneo per la Solidarietà Internazionale (Cesi), di fare il punto su questo nuovo allarme, di cui si è cominciato a parlare anche da noi.

Professore, cos’è Zika? Quali sono le sue origini? «È un Flavivirus, cugino diretto della febbre Dengue e della Chikungunya. Si tratta di una malattia vecchia e nuova allo stesso tempo, nel senso che prima di questa esplosione in Brasile, anticipata da focolai di avvisaglia in Asia, nel 2007, era un virus già noto alla comunità scientifica perché isolato in Uganda nel 1947. Il primo caso di contagio di un essere umano venne registrato nel 1952. Si trasmette attraverso l’interposizione della zanzara aedes aegypti e della aedes albopictus, più nota come zanzara tigre».

Perché si sta diffondendo soltanto adesso, dopo un “letargo” di oltre sessant’anni? «I fattori che favoriscono la diffusione di questo virus come di altri patogeni sono molteplici, ma una buona fetta di responsabilità è da attribuire alla condotta dell’uomo e allo scarso rispetto degli ecosistemi. Ad esempio, la deforestazione stravolge molti equilibri e accentua le possibilità di contatto tra gli animali e gli uomini. Come ha ricordato Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, “Dio perdona sempre, l’uomo qualche volta, la terra mai”. Con la globalizzazione poi, le persone in poche ore si spostano da una parte all’altra del mondo ed è facile che malattie del genere si manifestino ovunque. Ovviamente attecchiscono maggiormente in ambienti promiscui e di sovraffollamento, dove le condizioni igieniche e possono essere carenti». 

Che malattia causa Zika? «Stiamo parlando di un virus tutto sommato benigno: nel 25% dei casi che riguardano persone adulte non manifesta nessun sintomo, anche se resta lo stesso trasmissibile. Negli altri casi si comporta come una canonica influenza: febbre e dolori articolari, con l’aggiunta di macchie cutanee. In rari casi può dare un danno neurologico. Dura in media sette giorni. Non esistono al momento né vaccini né terapie. 

L’allarme Zika ha avuto una grande eco perché il ministero della Salute brasiliano ha comunicato che, da ottobre ad oggi, sono nati 3.530 bambini con microcefalia. La relazione tra le due malattie è scientificamente provata? «In Brasile, su una popolazione di oltre 200 milioni di persone, nascevano in media trecento bambini affetti da microcefalia, di recente se ne sono contati tremila. Questo è avvenuto sopratutto in una regione come Recife, nella quale, tra l’altro, esistono favelas dove strati della popolazione vivono in condizioni di difficoltà, ed è stato quasi istintivo collegare i due fenomeni, tenuto anche conto che il virus è stato isolato nel liquido amniotico di donne in stato interessante e nel liquido cefalo rachidiano dei neonati colpiti. La correlazione, però, non è stata dimostrata in maniera incontrovertibile». 

Il governo colombiano consiglia alle donne di evitare di restare incinte nei prossimi sei mesi. Ci sono precauzioni che si possono prendere? «Non mi permetto di giudicare l’appello della Colombia e non intendo certo prendere sotto gamba Zika. Però, per esempio, Ebola era molto più pericolosa e in certi periodi ha fatto veramente paura. In maniera precauzionale si può consigliare alle donne in dolce attesa di non recarsi nei Paesi dove Zika si sta diffondendo e, per tutti quelli che hanno effettuato un soggiorno in quelle aree, di restare sotto osservazione fino al ventottesimo giorno dal rientro, per evitare la diffusione del virus in patria. Le organizzazioni internazionali e il nostro ministero della Salute stanno monitorando con attenzione lo sviluppo della vicenda». 

L’Italia e l’Europa corrono il rischio di contagio? «Il rischio zero non esiste. È chiaro che, qualora si diffondesse, Zika sarebbe un contagio “da importazione” che riguarda singoli casi, dato che non è verosimile ipotizzare da noi o negli Stati Uniti una diffusione tale da determinare un vero e proprio focolaio di malattia. Aggiungo che solo uno dei vettori, la zanzara tigre è presente alle nostre latitudini. Discorso diverso per il Brasile dove, per cercare di arginare l’epidemia, stanno effettuando disinfestazioni massicce. Osservare le norme delineate dal ministero, come detto prima, è sufficiente per evitare la diffusione di Zika nel nostro continente».

In relazione a fenomeni globali come questo tipo di malattie, la stampa è una risorsa o la disinformazione può creare equivoci pericolosi? «Gli organi di informazione sono fondamentali perché sono una macchina che permette alla comunità scientifica di arrivare velocemente alle persone. Sta all’intelligenza di chi scrive dare notizie corrette. Ricordo, durante il proliferare di Ebola, un lavoro quotidiano straordinario di Bbc.com. Nei Paesi maggiormente coinvolti, Guinea, Liberia e Costa d’Avorio, si erano diffusi gli Ebola diaries, una forma spontanea di giornalismo in cui il lavoro d’inchiesta garantiva un aggiornamento continuo sull’evolversi dell’epidemia».