Sta scrivendo la sua tesi di fine master sul colpo di stato in Yemen e ancora, dopo un anno esatto, non può credere di essere qui in Italia e di avere anche scampato la guerra che sta devastando il suo Paese. 

Taha Hamood Hamood Abdo Al-Jalal ha trent’anni ed nato a Sanaa, la capitale dello Yemen, uno splendido Paese dalla storia millenaria che i romani avevano definito l’”Arabia felix”. Un anno fa, esattamente il 16 ottobre 2014, ha preso un aereo per sostenere l’ammissione al master in Middle Eastern Studies dell’Università Cattolica, nella sua prima edizione. «Sono arrivato in Italia anche per motivi personali – dice Taha – perché ho sposato una cittadina italiana. Il mio sogno è sempre stata l’America ma l’amore e l’ammissione a questo master mi hanno fatto diventare quasi italiano».

Taha qui ha scoperto una strada nuova. «La mia famiglia è originaria di Sanaa e ho sempre vissuto, studiato e lavorato lì. Sono laureato in Traduzione e lingua inglese e ho insegnato arabo standard nel prestigioso collegio per stranieri, soprattutto americani, YCMES, a Sanaa, e ho insegnato inglese presso l’istituto di IT per studenti yemeniti New Horizons. Diciamo che ho avuto sempre l’interesse per le relazioni internazionali, attraverso la mia passione per l’inglese, per il cinema americano, per la politica e grazie alla mia frequentazione di stranieri a Sanaa. Però non avevo idea del metodo di studio che gli occidentali utilizzano per analizzare i fenomeni politici e sociali in Medio Oriente».

Taha, che durante le rivoluzioni arabe del 2011 ha partecipato ai movimenti di piazza, rischiando la vita e sperando che anche per lo Yemen la dittatura che ha afflitto il Paese per 30 anni potesse lasciare il posto a uno stato federato, democratico, con nuova costituzione, partecipato da tutto il popolo, nel master ha trovato soprattutto degli strumenti di lettura della realtà. Dice: «All’inizio è stato difficile, per me era tutto nuovo: ma a poco a poco credo di avere acquisito il metodo. Soprattutto ho capito come ragionano le cancellerie occidentali guardando a Oriente e ho notato che, nel Paese da cui provengo, non esistono studi similari. Questo è un peccato: se ci fossero istituti di geopolitica, si potrebbe lavorare su piattaforme comuni. Invece, spesso, tranne casi isolati, il rischio è attivare un dialogo tra sordi».

Taha è un fanatico della democrazia partecipata, senza rinunciare alla sua identità di giovane musulmano yemenita e osservante. Al punto da inventarsi una petizione nel suo quartiere, nei mesi prima di migrare. «In realtà non sapevo si chiamasse così e solo oggi ho appreso che ho attivato uno strumento democratico in una situazione che era solo di sopruso e prevaricazione». 

Il giovane, nel 2014, prima del colpo di Stato ad opera dei ribelli houti, si era adoperato affinché l’imam che gli houti avevano imposto con la forza nella moschea di quartiere venisse rimosso. Come? Andando casa per casa a chiedere le firme dei cittadini per rimuovere questo “falso” imam e ripristinare d’autorità di “popolo” il precedente che ne aveva diritto: una persona in gamba, amata da tutti e molto preparata. «Appena ho completato la lista su cui ero il primo, l’ho consegnata allo sheik del villaggio perché lui, avendo nel sistema tribale un’autorità pari al sindaco, può decidere il da farsi. Per tutta risposta, lo sheik ha dato la petizione agli houti: in Medio Oriente vale la legge del più forte, purtroppo». 

Taha, che non vede la sua famiglia da un anno, e ha sempre notizie di loro tramite chat on line, spera, con questo master, di fare qualcosa di buono anche nel suo Paese: «Lavorare per lo Yemen, conquistando una buona posizione in una organizzazione internazionale o in una Ong mi piacerebbe molto. Se accadrà dovrò dire un doppio grazie alla Cattolica che mi ha aperto la mente e mi ha dato ottimi strumenti, spendibili nella mia vita futura e per uno Yemen di nuovo felice».