Ci sono voluti quattro giorni e cinque notti di Consiglio europeo per raggiungere l’accordo sul Recovery Fund definito da molti “storico”. Abbiamo chiesto ad alcuni professori dell’Università Cattolica un commento sull’intesa del 21 luglio che potrebbe segnare la storia dell’Unione europea. Lo speciale


«Siamo di fronte a un accordo storico e nonostante la fatica che ha segnato le giornate dell’ultimo Consiglio europeo gli elementi di fondo della proposta della Commissione Ue restano tutti». Angelo Baglioni, docente di Economia monetaria nella facoltà di Scienze bancarie, finanziarie e assicurative nonché direttore dell'Osservatorio monetario giudica positivamente l’accordo sul Recovery Fund e sul bilancio europeo 2021-2027, giunto alla fine del secondo vertice più lungo nella storia dell’Unione europea. «Abbiamo a disposizione un fondo molto ampio e consistente anche se c’è stato un certo ribilanciamento dei sussidi a fondo perduto e dei prestiti, ma gli importi, soprattutto per l’Italia rimangono quelli».

Qual è uno degli elementi più importanti di questo accordo? «Il fatto che questi fondi saranno finanziati dalla Commissione emettendo titoli sul mercato, i bond che rispondono sostanzialmente a una forma di Eurobond, di debito comunitario garantito dal bilancio Ue e in prospettiva anche da risorse proprie, quindi da alcune tasse e risorse proprie dell’Unione. Questo è un passo avanti sul piano dell’integrazione, sicuramente. Quindi, al di là delle cifre su cui ovviamente si tratta, i principi fondamentali sono rimasti. Credo peraltro che ora la sfida fondamentale sia capire che cosa succede da adesso in avanti. A settembre il governo italiano presenterà un piano dove dice sostanzialmente come vuole utilizzare questi fondi e sulla base del quale la Commissione deciderà se effettivamente erogarli. Insomma non è che adesso sia tutto scontato».

Come funziona questo meccanismo di emissione di bond? «Ci sarà un piano di emissioni di titoli di debito da parte della Commissione garantiti dal bilancio comunitario: ciò vuol dire che l’Italia, come altri paesi, avrà a disposizione una quantità di risorse per fare investimenti che, se non ci fosse stato il Recovery Fund, non avrebbe potuto fare o in alternativa avrebbe dovuto emettere debito nazionale facendo esplodere il rapporto tra debito pubblico nazionale e Pil. Quindi questo fondo europeo ci consentirà negli anni di avere a disposizione soldi per fare investimenti senza gravare sul debito pubblico nazionale».

Come li spenderà l’Italia? «Le aree nelle quali bisogna fare investimenti si conoscono da tempo: investimenti sulle infrastrutture e sulla digitalizzazione di pubblica amministrazione e imprese. C’è l’area degli investimenti verdi per la riconversione di determinati settori verso un’economia sostenibile. Poi c’è la scuola, la giustizia, la burocrazia. Il punto è che bisogna avere la capacità di investire e l’Italia non ha finora dimostrato di sapere spender bene i fondi pubblici, in particolare quelli europei. Penso che un controllo forte da parte del governo ci voglia, di modo che le procedure non si perdano in tutti i livelli, in tutti gli strati e negli enti vari della pubblica amministrazione. Da questo punto di vista un’arma importante potrà essere un ruolo proattivo di guida del governo e dei ministeri interessati ai vari capitoli di spesa».

Al di là di tutto e dopo una lunga trattativa l’accordo è stato raggiunto… «Indubbiamente c’è una certa frattura in Europa tra i paesi cosiddetti Frugali e gli altri. I primi rappresentano naturalmente una minoranza. Però con il modo di decidere attuale del Consiglio europeo questi paesi, per quanto piccoli, finiscono per avere un ruolo di veto o quasi di veto ancora molto pesante e siccome si fidano poco dei paesi ad alto debito, come Italia e Spagna, questo è un grosso problema. Quindi, se al momento alcune divisioni sono state superate, rimane l’ombra di un modo di decidere basato su trattative estenuanti per raggiungere l’unanimità che finisce per dare un ruolo spropositato agli stati più piccoli».

Come uscire da questa impasse? «La governance dell’Unione europea deve cambiare dando più potere agli organismi sovranazionali come Commissione e Parlamento. Le istituzioni sovranazionali funzionano e la Banca centrale europea ne è un esempio. Il problema è quando la trattativa avviene a livello di capi di stato e di governo oppure a livello di ministri dove prevale una logica nazionale e intergovernativa dove ciascuno guarda all’elettorato di casa sua».