di Velania La Mendola

Cosa distingue l’uomo dagli animali? La memoria, anzi la registrazione della memoria, cioè la scrittura. Così la pensava un letterato come Sciascia nel 1983. Nel 2018 la neuroscienziata Maryanne Wolf ha scritto: «Stiamo frazionando troppo la nostra attenzione perché la nostra memoria di lavoro possa funzionare in maniera ottimale; diamo per scontato che in un mondo digitale non si abbia bisogno di ricordare nello stesso modo che in passato». E continua: «Ci sono alcune tetre valutazioni che indicano come la capacità media di memoria di molti adulti sia diminuita di oltre il 50% nell’ultimo decennio».

Ci muoviamo in questa transizione antropologica e allora non sembra peregrino ricorrere nella Giornata della memoria a delle fonti scritte, alcune digitalizzate. La storia che vogliamo ricordare è quella dei laureati e studenti dell’Università Cattolica che aiutarono gli ebrei a fuggire alla loro terribile sorte e altri che invece soffrirono in prima persona nei campi di concentramento tedeschi. 

È un racconto che si intreccia con quello della Resistenza in Ateneo e che iniziamo con la voce del professor Ezio Franceschini, futuro rettore dell’Ateneo: «Qui da noi fu Padre Carlo che nell’ottobre del 1943, venuto per primo a conoscenza delle imminenti azioni di persecuzione contro gli ebrei, fece del suo ufficio il centro anche di questa opera di carità. Si trattava di assisterli, di sistemarli, di trovare loro rifugio o di avviarli subito, nei casi più urgenti e più gravi, alla frontiera, in maniera possibilmente sicura. Venivano qui da tutte le parti; ed io penso che il caro amico non dimenticherà facilmente quella giornata, proprio dell’8 dicembre, di due anni or sono, che gli portò contemporaneamente, e senza preavviso, sei o sette comitive di ebrei sfuggiti a Padova alla caccia delle SS tedesche e indirizzate a lui da quel Padre Cortese, dei Conventuali del Santo, che più tardi pagherà anche questa sua opera con l’arresto, la tortura e la morte» (L’Università Cattolica del Sacro Cuore nella lotta per la liberazione VeP 1946, oggi in Storia dell’Università Cattolica, vol. I, a cura di A. Cova).

Dove nasconderli? L’attivissimo padre Carlo, nominato da padre Gemelli assistente della Associazione Ludovico Necchi e autore di un memoriale che narra la storia della Resistenza in Cattolica, pubblicato in parte nel 1975 sulla rivista Vita e Pensiero (a cura di Anna Lisa Carlotti), nasconde un centinaio di ebrei in case di religiosi, di laureati, di amici, in cantine, cascine in campagna e anche nei sotterranei del collegio Marianum devastato dalle bombe (oggi sede dell’Augustinianum). Ma non basta nasconderli, servono documenti falsi. 

L’ufficio “falsi” della nostra Università, come veniva chiamato, ebbe origine e funzionò per i primi mesi in un locale messo a disposizione da Padre Gemelli, come documenta ampiamente anche il volume di Maria Bocci, Agostino Gemelli rettore e francescano. Chiesa, regime, democrazia, Brescia, (Morcelliana, 2003).

«Lì era possibile vedere – racconta ancora Franceschini (qui accanto nella fototessera per la carta d’identità falsa, al nome Andrea Zanoni, utilizzata durante la Resistenza) - un frate cappuccino tirar fuori dai nascondigli più impensati, e fin dal cappuccio della sua tonaca, carte d’identità, timbri, fotografie, lasciapassare italiani e tedeschi, chissà come e dove santamente rubati». I documenti arrivavano ad esempio dal Distretto Militare di Milano, allora di sede ad Abbiategrasso, da un nostro laureato, il dottor Giancarlo Brasca (poi direttore di sede) «che vi prestava servizio anche con questo intento, mentre altri giungevano dal Distretto di Sondrio, tramite un altro nostro laureato, il dottor Filippo Ponti». Padre Carlo viene però fortemente sospettato dal regime ed è costretto a lasciare Milano.

Un’ottantina di studenti dell’Ateneo vengono arrestati. Tra questi una quarantina finiscono tutti nello stesso campo e da lì nel giugno del 1944, in occasione della festa del Sacro Cuore, scrivono a padre Gemelli: «ringraziandolo “per l'apostolico zelo e la paterna sollecitudine avuta nella loro educazione intellettuale e morale”, ed esprimendo la certezza che la prova a cui la divina Provvidenza li aveva sottoposti sarebbe stata “la premessa indispensabile per la ricostituzione di un'Italia migliore”».

Ci sono altre due testimonianze illustri di quel periodo che vogliamo qui ricordare, due professori dell’Università Cattolica, Cinzio Violante e Giuseppe Lazzati.

Il primo – professore in Cattolica e poi della Normale di Pisa – ricorda la sua storia di soldato sulla rivista Vita e Pensiero (Ricordi e testimonianze sugli Internati Militari Italiani in Germania: «impressione indelebile aveva rappresentato per me - durante il mio viaggio lungo la penisola balcanica verso il mio reparto in Grecia – l'incontro con i treni che portavano in Germania gli Ebrei di Salonicco (quelle smunte teste rapate, che apparivano dall'unico finestrino del carro bestiame!)».
Violante rifiuta di aderire alla Repubblica di Salò e viene deportato in Polonia: «La presenza dei cattolici era particolarmente viva: io l'Università Cattolica, attraverso i suoi giovani laureati e professori, l'ho conosciuta lì. L'amico Giuseppe Lazzati era con me, nella stessa camerata, a Deblin, in Polonia. Lui, alpino, con una figura d'asceta, era capitato non so come nel nostro gruppo costituito quasi esclusivamente da 'romanacci' scanzonati dell'VIII Artiglieria. Ho saputo poi che dell'Università Cattolica c'erano anche Enrico Allorio, Antonio Di Pietro e Albino Garzetti».

Lazzati sarà poi deportato in Germania, a Oberlangen, Sandbostel e Wietzendorf. Ne ha scritto nel libro Il fondamento di ogni ricostruzione, edito da Vita e Pensiero nel 1947, che inizia così: «Ho scritto queste pagine nelle baracche fredde umide e scure dei campi di concentramento germanici, quando sui campi di battaglia si combatteva e si moriva, sulle città si rovesciava dal cielo pioggia di ferro e di fuoco a seminare vittime fra innocenti inconsapevoli e deboli, impotenti a difendersi, né v’era uomo che non sentisse ripercuotersi nello spirito e spesso incidersi nelle carni il dolore del flagello che sferzava l’umanità».

27 gennaio 2019, ricordiamo il terribile crimine dell’Olocausto, ricordiamolo rileggendo pagine di una storia che è passata anche da qui, davanti a persone che hanno compiuto scelte difficili sfidando «uomini che dell’ingiustizia avevano fatto la loro legge». Perché leggendo si trovano spesso spunti tuttora attuali, come questo pensiero del 1957 del già citato Garzetti: «La storia è una manifestazione d'immensa fraternità con gli uomini del passato e dell'avvenire, un riconoscersi uomini non solo nel presente contingente, ma nel complesso del tempo, e, al di là del tempo, - nell'assoluto umano». (Nel cantiere della storia, rivista Vita e Pensiero).


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