Una pandemia non l'aspettava sicuramente nessuno. Nemmeno, per quanto sempre pronti e educati, nelle aule e in tirocinio, a prepararsi a ogni “allerta”, i medici più giovani, particolarmente i neolaureati, in questa emergenza direttamente “in campo”. Abbiamo raccolto alcune delle loro storie


Tra le file dei medici in prima linea di questa emergenza sanitaria non ci sono solo professionisti dei reparti Covid. Sono rimasti sul fronte anche tutti quei dottori che, pur lavorando in altri reparti, quelli propri di ogni ospedale prima del Coronavirus, hanno risentito nel loro lavoro di questo “ospite” inatteso. Così è stato, per esempio, nell’Unità operativa complessa di Radioterapia oncologica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs, diretta dal professor Vincenzo Valentini, docente di Diagnostica per immagini e Radioterapia all'Università Cattolica.

Luca Tagliaferri è specialista in Radioterapia oncologica e dottore di ricerca in Radioterapia Interventistica (brachiterapia) ed è attualmente dirigente medico con incarico di Alta Specializzazione, referente del Centro di Oncologia Interventistica del Gemelli Art (Advanced Radiation Therapy).

Dottor Tagliaferri, quanto e cosa è cambiato nell’Unità Operativa di Radioterapia Oncologica in questi mesi di emergenza sanitaria? «La moderna radioterapia oncologica è uno dei settori della medicina dove, nonostante l’elevata presenza di tecnologia, può esistere un incredibile livello di umanità che spesso si realizza attraverso una forte relazione tra il medico e il paziente, anche attraverso gesti fisici come una forte stretta di mano o un caloroso abbraccio.  Quotidianamente, è proprio in questo contatto fisico che si concretizza quel legame bidirezionale che rappresenta una sincera offerta di aiuto da parte del medico attraverso la propria professionalità e la manifestazione di fiducia da parte del paziente. Questa “alleanza terapeutica”, che in genere nasce con la prima visita e tende a rafforzarsi giorno dopo giorno, spesso rappresenta uno degli elementi principali che sostiene il paziente nel lungo percorso della terapia oncologica in un atteggiamento di affidamento al medico, all’equipe e alla struttura.  Utilizzando le radiazioni, come oncologi radioterapisti, siamo abituati a lavorare con un possibile pericolo “invisibile” che diventa però vantaggio per il paziente perché strumento terapeutico per combattere e spesso guarire il tumore». 

E poi è arrivato il Covid-19… «L’emergenza Covid-19 ha cambiato notevolmente le relazioni interpersonali, non solo nel contatto fisico, ma anche nelle attenzioni, che per i nostri pazienti si traducono in una doppia prova di fiducia e di coraggio legata al rischio di infezione, ma anche alle preoccupazioni dovute alla propria malattia oncologica. Da subito quindi il nostro sforzo è stato orientato agli aspetti organizzativi per garantire le terapie oncologiche in sicurezza a tutti i nostri assistiti, ma anche agli aspetti relazionali per non limitare l’alleanza medico-paziente. Così grazie a un intenso lavoro di équipe che ha visto uno sforzo multi-professionale con la collaborazione tra medici, infermieri, tecnici e personale ausiliario, sono stati identificati specifici percorsi protetti e nuove procedure che hanno garantito non solo l’offerta terapeutica ai pazienti ma anche una sicurezza degli stessi e del personale». 

Quali procedure e quali strategie si sono modificate nella vostra attività? «I primi interventi sono stati discussi e orientati per i pazienti in terapia attraverso l’implementazione di procedure rigide per il distanziamento nelle sale di attesa e per ridurre il numero di presenze nelle stesse, attenti controlli della temperatura attraverso termometri a raggi infrarossi a tutto il personale e ai pazienti, verifiche per il corretto uso della mascherina e tamponi diagnostici a tutti i pazienti in ingresso nel reparto di degenza. In questi nuovi meccanismi tutto il personale si è messo in gioco dal medico “senior” al tecnico di radioterapia, dall’infermiere al medico specializzando. Tutti hanno voluto contribuire per la realizzazione di procedure non ancora codificate nella nostra pratica clinica. Questa particolare attenzione del personale alla sicurezza ha in parte colmato quella mancanza di contatto fisico tra il medico e il paziente, facendo emergere la possibilità di difendere quella fondamentale attenzione alle relazioni anche attraverso nuovi modelli». 

E quali nuove idee e progetti assistenziali sono già sorti da questa esperienza? «Grazie alla collaborazione tra il nostro Policlinico e una software-house è stata realizzata un’app (sia per cellulari Apple che Android) dedicata al nostro personale e ai nostri pazienti per un monitoraggio continuo della sintomatologia attraverso questionari quotidiani e l’interazione con i nostri telefoni e smart watch. In questo modo è possibile identificare alcune situazioni a rischio prima dell’arrivo in ospedale e mettere in atto tutte quelle procedure di tutela interpersonale. Dopo la fase di assestamento ed emergenza iniziale per garantire la continuità terapeutica, tuttavia le nostre discussioni e riflessioni si sono subito spostate verso quei pazienti costretti al proprio domicilio ma bisognosi di parlare e relazionarsi con un medico, o per un problema sopraggiunto o per un controllo programmato da tempo e che il paziente aspettava con preoccupazione per il possibile esito. Per questo, una task-force multi-professionale ha discusso e realizzato in collaborazione con l’Associazione Attilio Romanini, anche attraverso contributi di fondazioni e privati, il progetto “KIT - Keep In Touch”. Infatti, in poche settimane è stato avviato un servizio di televisita a distanza attraverso l’uso di apparecchiature dedicate che permettono di effettuare valutazioni con videocollegamenti con i pazienti direttamente dal proprio domicilio».

Vuole lasciare un messaggio ai tanti ragazze e ragazzi che aspirano a diventare medici e infermieri? «In questi giorni si è tanto parlato dei medici e degli operatori sanitari che sono stati definiti “salvatori” o “eroi”, infatti da una parte hanno testimoniato un’attenzione al proprio dovere tra le mura dell’ospedale, ma dall’altra hanno vissuto momenti di solitudine nel proprio domicilio, o perché lontani dalle proprie famiglie o per la preoccupazione di poter essere pericolosi per i propri cari a causa della continua esposizione assistenziale. Questa esperienza ha aiutato a far riscoprire l’aspetto missionario e pastorale della nostra professione che dovrebbe essere sempre chiaro a noi medici, anche se la moderna sanità spesso ci distrae con le tante procedure organizzative e la tanta burocrazia. Parallelamente questa emergenza ci ha insegnato che esistono tanti modi per relazionarsi con il paziente per non farlo sentire solo, dall’accoglienza con un termometro a raggi infrarossi, alla riscoperta del valore dello sguardo. Infatti quando le regole ci impediscono una sincera stretta di mano o un affettuoso abbraccio e la mascherina ci nasconde la faccia, lo sguardo può rivelarsi un efficace strumento per offrire al paziente conforto, sollievo e speranza».  


Ottavo di una serie di articoli dedicati ai nostri medici in prima linea nella lotta al Coronavirus