Nell’emergenza Covid hanno fatto notizia, accanto a medici e infermieri, anche i sacerdoti. Molti perché, per stare vicini ai malati negli ospedali e nelle case di riposo, hanno contratto la malattia e, talora, sono anche deceduti. Tutti perché non hanno abbandonato la vicinanza alle persone colpite in maniera diretta o indiretta. Tra di loro anche molti assistenti pastorali o docenti di teologia dell’Università Cattolica, che, accanto al loro impegno in Ateneo, sono stati in prima linea su diversi fronti


«Quando salgo in cattedra, non sono prete, ma professore. C’è una forte continuità umana in queste due vesti». Lo afferma don Roberto Maier, prete per 18 anni in un oratorio nel milanese e poi docente di Teologia per le sedi di Cremona e Piacenza dell’Università Cattolica e docente di Bioetica all’Università Statale di Parma. «Ho sempre studiato per i giovani, ma non mi sarei mai immaginato una carriera accademica, è iniziato tutto sei anni fa». 

Una professione, quella del docente universitario, che per certi versi può intrecciarsi con la sua vocazione. «Il ruolo di docente non è più pastorale - afferma don Roberto - ma permette di usare quella parte del cristianesimo che riguarda l’uomo, ovvero l’antropologia cristiana. Ciò accade non solo in facoltà umanistiche, ma anche in altre facoltà come quella di Scienze agrarie, alimentari e ambientali, dove insegno. I corsi di teologia offrono agli studenti una possibilità di riflessione su un umanesimo possibile». 

Da professore quale messaggio trasmette ai suoi studenti? «I messaggi che cerco di trasmettere sono due. Il primo è l’apertura mentale: avere competenze filosofiche, oltre che teologiche, permette agli studenti di avere un’elasticità mentale che paga. Avere la capacità di uscire dagli schemi prettamente tecnici delle discipline è molto importante e apprezzato. La seconda è l’amore per l’uomo: proprio il fatto che io sia un prete cattolico e possa parlare oltre che di teologia anche del sistema agroalimentare o di economia, si radica su un grande amore per l’uomo che un cristiano dovrebbe avere e che gli studenti acquisiscono sempre più. Questa sfida la porto non solo ai miei studenti, ma anche in ambito di ricerca personale: infatti sono io stesso uno studente alla Scuola di dottorato per il Sistema agroalimentare (Agrisystem) e le ricerche che svolgo mostrano che, anche in ambiti non umanistici oltre che non cristiani, l’interesse verso la teologia è crescente». 

Tra gli altri libri che ha scritto, uno in particolare mi ha colpito, “Il fondo delle parole. Poesia ed esperienza spirituale”. Che legame si cela tra poesia e spiritualità? «In quel testo cerco di analizzare l’atto umano del fare poesia, il ruolo della poesia nel linguaggio e la somiglianza che c’è tra atto poetico e spiritualità. Anche in questo caso l’interesse è mostrare come il religioso abbia a che fare con il linguaggio e come il linguaggio, a sua volta, abbia a che fare con ciò che supera le cose. Proprio per questo motivo, in quel testo analizzo alcune poesie non cristiane del Novecento essendo, quest’ultimo, un secolo di poesie per lo più spirituali». 

La poesia è un atto umano, come ha appena affermato. Crede che in un periodo storico così difficile come quello presente, la poesia possa essere d’aiuto all’uomo? «Io credo che mai come in una situazione difficile come quella attuale, sia necessario ricorrere all’umanesimo. In questo senso, credo che la priorità non sia tanto riaprire le Chiese quanto riaprire le scuole e le case editrici. Per far fronte a questa crisi c’è bisogno di una forte cultura. È chiaro che, in questo momento, la scienza ha degli strumenti che non sono sufficienti ad affrontare la situazione. Credo che sia necessario affidarci alla dimensione culturale e poetica».

Com’è cambiata in senso più pratico la sua attività con lo scoppio del Coronavirus? Cosa le è mancato di più della sua quotidianità? «Come tutti i preti che si sono trovati a vivere questa situazione, sono diventato un po’ più laico, più cittadino. Non vado più in università, ma continuo con le lezioni per via telematica e aiuto le persone della parrocchia per telefono. Ho anche iniziato a fare delle attività che non avrei mai pensato di fare prima: sono volontario per la Croce Rossa e ho fatto lezione ad alcuni bambini di un quartiere povero di Milano che, purtroppo, sono rimasti tagliati fuori dalla didattica a distanza. Non potendo più celebrare la messa o i funerali e non avendo figli propri, avevo molte energie libere da metter a disposizione degli altri. L’incontro faccia a faccia è la cosa che più mi è mancato. In questo momento così difficile siamo stati poveri di mondo: ci è mancato uscire, organizzare la giornata, ci sono mancate le relazioni con le persone, ma forse ancor di più quelle con le cose e i luoghi».


Ultimo di una serie di articoli dedicati all’impegno dei preti assistenti pastorali o docenti di teologia dell’Università Cattolica sul fronte Coronavirus