Una fede vissuta, pensata, praticata e, in quanto tale, strumento prezioso per la costruzione della propria identità. È questo in sintesi il messaggio emerso dall’incontro dedicato all’ormai tradizionale prolusione ai Corsi di Teologia, quest’anno affidata a monsignor Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara e vice presidente della Conferenza Episcopale Italiana. “Credere e sapere: le due ali dello spirito umano”: questo il titolo della lectio pronunciata davanti agli studenti iscritti al primo anno dell’Università Cattolica e introdotta dai saluti del rettore Franco Anelli e dell’assistente ecclesiastico generale dell’Ateneo monsignor Claudio Giuliodori.
Una lezione che, prendendo le mosse dalla ricerca su “Giovani e fede in Italia” dell’Istituto Toniolo raccolta nel volume “Dio a modo mio” (Vita e Pensiero), ha offerto numerosi spunti di riflessione utili «non solo a una lettura diagnostica che consenta di collocare il tema della religiosità nello spazio della costruzione dell’identità relazionale del soggetto, ma anche di aprire percorsi creativi che mostrino effettivamente come la fede sia elemento determinante nella costruzione dell’umano».
Il primo passo da compiere, perciò, è quello di sfatare alcuni luoghi comuni, che monsignor Brambilla denomina «tensioni fondamentali», basati sulla credenza che tra gli elementi che formano l’identità personale – esperienza, ragione, prassi – non vi sia una «vaga mano di vernice religiosa». Al contrario, si tratta di aspetti fortemente intrecciati. «Occorre evitare di pensare – ha detto monsignor Brambilla – la fede vissuta come la fede spontanea, immediata, cieca». In realtà, la fede “vissuta” è fin dall’inizio anche una fede “saputa”, che porta con sé le buone ragioni del credere. Da questo punto di vista è quanto mai centrale l’insegnamento della teologia in quanto una «corretta azione educativa consisterà nel favorire questi motivi e scelte dentro la trama della vita».
La seconda chiarificazione riguarda la tensione secondo cui la fede saputa è molto più della fede pensata. Eppure la fede saputa per essere tale deve essere pensata. Come? «Il primo modo è quello alto del pensiero “critico” e “argomentativo” – ha osservato monsignor Brambilla –, proprio della teologia, che mette in rapporto il sapere della fede con le forme del sapere con cui l’uomo di ogni tempo cerca la verità». Il secondo modo, invece, «è quello del sapere “riflessivo”, il quale non mira al sapere critico, ma a costruire una mentalità di fede». Di qui la proposta di monsignor Brambilla «di una fede pensata secondo un modello dialogico e interdisciplinare, perché è decisivo per la formazione dei giovani che si superi il modello scolare, della lezione o dell’incontro di gruppo, oggi spesso sostituito dal ciclo di conferenze».
La terza e ultima tensione da superare è quella tra fede “pensata” e fede “praticata”. Dal momento che esiste un rapporto circolare tra teoria e prassi, tra pensare e praticare, «l’agire umano, e in particolare l’agire cristiano, è il luogo di un’esperienza che non solo esprime, ma costruisce la consapevolezza del proprio esser credenti». Ecco allora l’esortazione finale del vescovo di Novara: «Arrischiare di fare più pratica». Perché una fede praticata irrobustisce la fede vissuta, sottraendola alle secche dello spontaneismo e mettendola nel mare aperto della testimonianza. Perché «si diventa grandi solo quando si è capaci di concentrare il sogno universale in un scelta di vita». Un percorso che la teologia può rendere più semplice visto che dà i criteri per cogliere la ricchezza inesauribile della fede.