di Franco Anelli *

Eminenza Reverendissima, Card. Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità,
Eccellenze Rev.me,
Rettori Magnifici e loro rappresentanti,
Autorità religiose, civili e militari,
Signori Presidi di Facoltà, chiarissimi Professori e gentili Ricercatori,
Illustri componenti dell’Istituto Giuseppe Toniolo e del Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo,
Direttore amministrativo e stimato Personale,
Cari Studenti e rappresentanti degli Studenti,
Signore e Signori,
a tutti porgo il più cordiale benvenuto alla cerimonia di inaugurazione del 99° anno accademico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Saluto che estendo a chi ci sta seguendo in streaming e nelle aule collegate.

    1. Mi è gradito rivolgere anzitutto un vivo ringraziamento a Sua Eminenza il Cardinale Pietro Parolin Segretario di Stato di Sua Santità, per aver generosamente accolto l’invito a tenere l’odierna Prolusione. Parlare di generosità in questo caso non è uno stilema, se si pensa che solo due giorni fa il Card. Parolin è rientrato dall’impegnativo viaggio con il Santo Padre in Thailandia e Giappone.
La sua presenza oggi alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico, momento simbolico eccellente nella vita universitaria, testimonia la vicinanza della Santa Sede alla nostra comunità accademica: confortati e stimolati da tale sollecitudine, ancor più ci sentiamo parte viva e integrante della Chiesa.
Un’appartenenza intensa e appassionata, ma da sempre alla ricerca di una propria specificità, di un’originale declinazione del singolare carisma che le deriva dall’essere istituzione assai particolare nella grande e ricca articolazione della Chiesa, ossia dall’essere un’università, che opera all’interno del sistema dell’istruzione pubblica, secondo le regole e i metodi che sono propri di quel sistema, mantenendo fisso lo sguardo all’orizzonte delle finalità che le sono assegnate dalla sua origine ex corde Ecclesiae

    2. Proprio il tema della Prolusione che ci accingiamo ad ascoltare pone in risalto un obiettivo tra i più alti, la costruzione della pace, al quale gli atenei non possono dirsi estranei, delegandolo agli Stati e alle Cancellerie.
In questa impresa le istituzioni culturali e formative sono mobilitate – è il caso di dire – per una specifica ragione: perché i conflitti hanno con innegabile evidenza una radice sempre più profondamente culturale, e dunque le condizioni di possibilità della coesistenza pacifica, della collaborazione tra i popoli e di una prosperità diffusa possono scaturire soltanto dalla capacità di far dialogare tradizioni e modelli sociali differenti, il che implica anzitutto l’instaurazione di una relazione di mutuo riconoscimento e rispetto.
Il conflitto si alimenta della non conoscenza non solo dell’altro, ma anche di sé. L’assenza di una chiara percezione della propria identità e storia collettiva è la premessa del fallimento di qualsiasi tentativo di dialogo tra i popoli, perché porta a costruire la propria immagine in termini puramente negativi, come contrapposizione all’altro; porta a bollare gli altri come “barbari”. 
Barbari, fin dalla notte dei tempi, sono coloro con i quali non si può parlare, perché non conoscono la lingua, la nostra lingua; ma più radicalmente, secondo le parole di Tzvetan Todorov (La paura dei barbari, Milano, 2009), «sono quelli che negano la piena umanità degli altri». E quando la negazione è reciproca, il dialogo diviene impossibile, lo scontro inevitabile. 
La premessa, per uscire dallo stallo, consiste anzitutto nella edificazione di una coscienza collettiva sufficientemente chiara e solida da poter essere giocata in un confronto dialettico; viceversa un’identità fragile e smarrita è incapace di concepirsi e rappresentarsi se non per riflessa contrapposizione all’altro, necessariamente visto come ostile, e finisce ultimamente per dipendere da quella patologica relazione. Una condizione messa a fuoco da Konstantinos Kavafis con la forza del verso poetico: «S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti […] E adesso, senza barbari, che cosa sarà di noi? Era una soluzione quella gente».
Se invece si matura la consapevolezza che non è l’avversione per il nemico la “soluzione”, il rimedio alla carenza di una chiara percezione di sé, allora non si sfugge alla necessità di una propria “cultura” come coscienza collettiva. Non casualmente, tra i tanti segnali in questo senso che affiorano nel dibattito intellettuale, il più recente libro di Francis Fukuyama, a trenta anni da La fine della storia, si concentra sulla Identità (Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi, Torino, 2018, p. 141), osservando che l’identità nazionale si manifesta esteriormente anzitutto nelle leggi e nelle istituzioni formali, ma si estende «all’ambito della cultura e dei valori, e consiste nelle storie che il popolo racconta su se stesso: da dove viene, che cosa celebra, qual è la memoria storica condivisa, che cosa occorre per diventare a pieno titolo un membro della comunità».
E qui, come dicevo, il ruolo delle università – tra i tanti soggetti chiamati in gioco – è ineludibile, sia per concorrere alla costruzione e al riconoscimento delle culture dei contesti nazionali in cui operano, sia per rendere possibile il dialogo con le identità altre, per superare la reciproca accusa di “barbarie”.

    3. A questo scopo non si richiede soltanto di promuovere processi di internazionalizzazione delle attività di ricerca e di insegnamento; di coltivare quella naturale, essenziale caratteristica di universalità che ha reso gli atenei del nostro continente intrinsecamente europei secoli prima che di un’Europa unita si cominciasse a parlare. Il compito è assai più elevato, siamo chiamati a partecipare all’elaborazione di un pensiero nuovo, che ci permetta di comprendere e affrontare un contesto altrettanto nuovo. Le sollecitazioni in questo senso sono numerose ed esplicite.
    L’Università Cattolica si è fin dalla fondazione posta come strumento per la partecipazione dei cattolici alla cultura del Paese, in un’epoca in cui, per usare le parole del Card. Parolin, il cattolicesimo «non aveva luoghi e spazi significativi a livello di studi superiori e dell’alta formazione»; una situazione stridente con il decisivo plurisecolare contributo del messaggio cristiano e della tradizione della Chiesa alla costruzione della cultura nazionale.
    Questo compito di elaborazione di un pensiero e di un’azione educativa che siano testimonianza di valori è stato rinnovato e vivificato dal Santo Padre in un discorso tenuto il 4 novembre scorso agli esponenti della Federazione Internazionale delle Università Cattoliche. 
    Di fronte alle urgenze poste dallo sviluppo delle scienze e delle tecnologie, dall’evoluzione critica dei rapporti economici e sociali, da una generale “crisi” dell’umano, il Santo Padre ha ammonito le università a interrogarsi «sul contributo che esse possono e devono dare per la salute integrale dell’uomo e per un’ecologia solidale». 
    Ciò si traduce anzitutto in un approccio che muove «da un’idea di educazione concepita come un processo teleologico, cioè che guarda al fine, necessariamente orientato verso un fine e, quindi, verso una precisa visione dell’uomo». Si tratta, come precisa un importante documento della Congregazione per Educazione Cattolica, diffuso nel 2017, per i 50 anni della Populorum Progressio, di Educare all’umanesimo solidale
    Da questa premessa il Santo Padre apre l’orizzonte verso una conclusione che, per la radicale profondità dell’esito, colpisce e impegna: «il collegamento tra conoscenze e finalità rimanda al tema della intenzionalità e al ruolo del soggetto in ogni processo conoscitivo. E arriviamo così ad una nuova episteme; è una sfida: fare una nuova episteme».
    Nuova episteme in che senso? Immaginare la stessa possibilità di una nuova episteme impone di collocarla in relazione a un determinato contesto culturale dinamico. Si potrebbe qui richiamare la concezione di Michel Foucault secondo cui bisogna tenere in considerazione i «codici fondamentali di una cultura – quelli che ne governano il linguaggio, gli schemi percettivi, gli scambi, le tecniche, i valori, la gerarchia delle sue pratiche …» (Le parole e le cose, Milano, 1967, p. 10). 
    L’interrogativo filosofico meriterebbe ben più ampio spazio e soprattutto altre e più profonde competenze. È dunque più prudente tornare al testo del Santo Padre; se, osserva, l’approccio epistemologico tradizionale ascriveva alla conoscenza un tratto impersonale, quale presupposto della universalità e comunicabilità del sapere (insomma l’idea weberiana della avalutatività dell’approccio scientifico), oggi diffusamente si ammette che «non esistono esperienze totalmente impersonali: la forma mentis, le convinzioni normative, le categorie, la creatività, le esperienze esistenziali del soggetto rappresentano una dimensione tacita della conoscenza ma sempre presente, un fattore indispensabile per l’accettazione del progresso scientifico». In conclusione «non possiamo pensare a una nuova episteme di laboratorio […], ma della vita sì», ossia si impone un allargamento alle dimensioni autenticamente umane. 
    Un compito indubbiamente terribile. Che assume valenza radicale e ci affida un nuovo mandato non meno intenso e cogente di quello contenuto nella Costituzione Apostolica Ex corde Ecclesiae, la Carta fondamentale delle università cattoliche. Pur nella differente valenza formale dei due documenti, il recente discorso del Santo Padre non solo si ricollega al testo centrale nella definizione della missione degli atenei cattolici, ma ad esso aggiunge una nuova prospettiva. Infatti sul versante, in particolare, delle riflessioni dedicate alla ricerca scientifica la Ex corde Ecclesiae puntava l’attenzione sul tema del rapporto tra fede e ragione e del dovere delle università cattoliche di porsi alla ricerca della verità coniugando il rigore del metodo scientifico con la ricchezza del messaggio evangelico, secondo una relazione che ha trovato nel discorso delle due lampade di San Paolo VI una rappresentazione di grande forza simbolica.
    L’insegnamento di Papa Francesco invoca ora l’elaborazione di un approccio scientifico ed educativo che, attento al senso dell’agire e non soltanto al metodo, non può prescindere dalla persona. Richiamo prezioso e originale in un’epoca in cui la ricerca è concepita come fonte di innovazione tecnologica, prima che come tensione verso la conoscenza, e la formazione come addestramento piuttosto che educazione; un’epoca dominata dall’ansia della rapidità, non disposta ad ammettere che i tempi del sapere e dell’educazione sono diversi da quelli della produzione.
    In questa prospettiva l’approccio del Santo Padre si raccorda e porta a ulteriore sviluppo l’idea di umanesimo che già si trova formulato nella Laudato Si’.
    Si tratta di elaborare nuovi codici culturali, sociali e morali, che riportino al centro la persona, aggredita dall’incedere di tecnologie potenzialmente disumanizzanti, dall’affermarsi di modelli economici incapaci di impedire lo sfruttamento e di rimediare alle diseguaglianze, pronti a estromettere tutto ciò che non sia considerato efficiente e produttivo e a sacrificare l’integrità del creato al profitto.
    Ciò non può significare, ovviamente, l’abbandono del metodo sperimentale nelle scienze empiriche, che su di esso poggiano la loro legittimazione; ci viene richiesto piuttosto di promuovere un pensiero fondato su sistemi di valore che fungano da termini di riferimento per discernere le metodiche di indagine e le applicazioni delle nuove scoperte.  In una parola consentire all’umano di riappropriarsi a fondo di quei processi, tornare a governarli piuttosto che esserne governato e condizionato, reagendo a quel “paradigma tecnocratico” censurato nella Laudato Si’. 
    È forse questa una delle declinazioni più radicali dell’idea di cambiamento di paradigma, nella sua accezione propria, appunto epistemologica, elaborata da Thomas Kuhn (La struttura delle rivoluzioni scientifiche, 1962).

4. Gli stimoli e le attese verso un preciso impegno delle università nella direzione indicata dal Santo Padre vengono anche da altre fonti. Non abbiamo dimenticato la domanda che l’Arcivescovo Mons. Delpini ci ha rivolto nel Discorso alla città tenuto nella Basilica di S. Ambrogio quasi un anno fa, lo scorso 6 dicembre: «possiamo disturbare le accademie?», si chiedeva, per poi spronarle «a produrre e a proporre un pensiero politico, sociale, economico e culturale», ricordando che tutti siamo «autorizzati a pensare».
    Quella formula icastica ci ha sfidato e l’abbiamo meditata in questi mesi. In essa non c’è soltanto ironia; esprime un’esigenza diffusamente avvertita, come spesso accade quando una nuova idea è matura e germoglia in luoghi e contesti diversi in modo apparentemente indipendente.
    In un recente volume, Il futuro come fatto culturale, Arjun Appadurai pone la questione della ricerca scientifica in una luce per molti aspetti nuova: quella della ricerca come diritto umano. Di libertà di ricerca e insegnamento non da ora si parla, ovviamente. Ma la declinazione dell’indagine scientifica, nel contesto contemporaneo, quello della società della conoscenza, come diritto fondamentale dischiude una prospettiva stimolante: si tratta di riconoscere il «diritto agli strumenti tramite i quali qualsiasi cittadino possa incrementare in modo sistematico il capitale conoscitivo che ritiene essenziale per la propria sopravvivenza di essere umano e per le proprie rivendicazioni di cittadino» (pag. 371). 
Tale esigenza si sviluppa su due livelli: «l’idea che oggi una piena cittadinanza implica la capacità di fare indagini strategiche e di acquisire conoscenza strategica su basi continue»; per altro aspetto, «la ragione retorica per osservare la ricerca secondo una prospettiva fondata sul diritto consiste nello spingerci a prendere un po’ di distanza dalla concezione normale professionalizzata della ricerca e nell’ottenere un qualche beneficio dal considerare la ricerca con una capacità assai più universale, primaria e passibile di miglioramento».    
    Una conoscenza scientifica capillarmente diffusa è forse un’utopia, ma non lo è il progetto di disseminare coscienza critica, capacità di pensare, non di ripetere. 
    Tutto ciò ulteriormente postula l’idea di un sapere non come patrimonio statico, ma come storia dinamica pronta a elaborare nuovi codici di comprensione quando quelli consolidati cessano di servire l’uomo e si rivelano inadatti o addirittura pericolosi.

    5. Queste sollecitazioni non possono restare inascoltate. Si impongono con la forza della realtà, dell’impellente necessità di un nuovo quadro di riferimento. Dare risposta non è impresa per una sola persona o una sola istituzione; ma è una necessità riconoscere che quella è la direzione e che lì occorre portare il nostro contributo. 
    L’occasione per avviare quel processo è prossima. Siamo infatti alla vigilia del centenario dalla fondazione dell’Ateneo e la sollecitazione del Santo Padre ci impone di intendere l’anniversario come occasione forte per riflettere sui modi per riaffermare la nostra identità nel contesto attuale.
    L’Ateneo dei Cattolici italiani ha attraversato quasi tutto il ‘900; è nato tra le due guerre; è sopravvissuto alla tragedia del conflitto; ha accompagnato i mutamenti del dopoguerra e oggi ancora si accinge ad affrontare tempi nuovi e difficili, che come sempre nella storia richiedono una nuova capacità di interpretazione della realtà.
     San John Henry Newman diceva: «Qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni»; occorre però avere ben chiara la direzione del viaggio, e ben salda la fede in ciò che crediamo. 

    6. Lo sforzo di questa riflessione appartiene all’università come communitas.
    Se serve “una nuova episteme”, è qui che dobbiamo pensarla, sempre, e tanto più intensamente nell’anno cui andiamo incontro, un anno che vede coincidere la riflessione sul Patto educativo proposta da Papa Francesco e la preparazione del nostro centenario. Tutto ciò fa capire che siamo in un tempo fondamentale, impegnativo ed entusiasmante per la nostra Università. 

    Investire sull’intelligenza e il talento dei giovani è edificare la società di domani. E poiché si opera oggi, e lo si fa in larga parte utilizzando strumenti che vengono dal passato, diventa necessaria una speciale sensibilità nell’interpretare la contemporaneità per intravvedere il futuro senza averne paura; anzi, già altre volte ho ricordato che padre Gemelli diceva: «Non possono essere educatori coloro che vivono nel passato».
    La ricerca di senso si basa su paradigmi immodificabili, certo, ma si alimenta di continue riflessioni sui cambiamenti della storia e si rigenera nell’alleanza costitutiva di un ateneo: quella tra i docenti e gli studenti (con le loro famiglie).
    Il nostro ruolo di docenti è cruciale e ad esso non possiamo né vogliamo abdicare, ma da soli noi docenti possiamo fare poco. È nel patto con voi, carissime studentesse e carissimi studenti, che l’Università Cattolica diventa un’unità complessa e creativa. E dunque è giusto ringraziarvi per primi, perché sempre più numerosi scegliete la nostra Università e date significato all’impegno dell’Ateneo. 
    Negli ultimi cinque anni la nostra popolazione studentesca è cresciuta del 16%. Oggi siete oltre 43.000, di cui quasi 14.000 nuovi iscritti. 
    Avete scelto di seguire un percorso faticoso, che talora vi richiede di spendere più impegno che altrove, perché siete disposti a fare dei vostri anni di studio un’esperienza di crescita personale e non soltanto professionale.
    Mi è capitato di sottolineare in varie occasioni, con una ripetitività che nasce dalla convinzione, che questa Università non può annoverare quali fondatori soltanto Padre Gemelli, Armida Barelli o Giuseppe Toniolo, ispiratore appassionato di un progetto che non poté, in vita, vedere compiuto. 
Alla fondazione hanno concorso in modo decisivo i giovani che cent’anni fa scelsero di investire il loro futuro in un ateneo nascente; ed è un atto fondativo che si rinnova ad ogni anno accademico, quando accogliamo vecchi e nuovi studenti. 

    7. Accogliere le persone significa predisporre un’offerta formativa ricca e diversificata: i corsi di laurea erogati dalle 12 facoltà sono 95; 48 le scuole di specializzazione e 20 i corsi di dottorato, impartiti da 1200 docenti in organico. 
    Accogliere le persone significa inserirle nel contesto di una qualificata research university
    In termini di posizionamento, per fare riferimento ad un indice sintetico, l’Università è censita positivamente nel QS Rankings by Subject 2019 in 13 subject areas (contro le 5 del 2013, a testimonianza della crescita di questi anni). 
    In particolare l’Ateneo si colloca tra i primi cento al mondo nell’area “Theology, Divinity and Religious Studies”; tra i primi 150 nelle aree “Law”, “Medicine” e “Modern Languages”; nonché tra i primi 200 in altre cinque aree (“Accounting & Finance”; “Agriculture & Forestry”; “Communication & Media Studies”; “Economics & Econometrics” e “Psychology”). Menziono queste evidenze perché sono conferma di una qualità diffusa, ardua da raggiungere in un contesto che presenta discipline diversificate.
    Accogliere significa garantire sostegno, economico e non solo, a chi ne ha bisogno. Anche nell’anno appena trascorso l’Ateneo ed EDUCatt (il nostro Ente per il Diritto allo Studio) hanno deliberato un intervento straordinario di circa € 2.400.000, necessario per colmare il divario tra l’ammontare delle risorse pubbliche disponibili per gli studenti idonei della Cattolica e l’effettivo fabbisogno. 
Si è così scongiurata l’esclusione di ben 752 studenti aventi diritto su 2.942, che si sarebbero trovati nell’iniqua condizione di non fruire della borsa di studio per mancanza di risorse pubbliche.
    Questo ulteriore sforzo dell’Ateneo si somma a quelli già compiuti dal 2011 al 2018 per circa 8,5 milioni di euro: sacrifici importanti per un’istituzione libera, che vive quasi esclusivamente della propria attività e che ha visto di recente drasticamente ridotto il sostegno regionale anche ad altre attività funzionali al diritto allo studio, con un effetto particolarmente negativo sul sistema dei collegi. Un grave vulnus per una realtà che costituisce parte integrante del modello educativo dell’Ateneo e che da sempre gli assicura una dimensione autenticamente nazionale.
    A ciò si aggiungono premi e borse di studio per merito, attivati, anche con il sostegno dell’Istituto Toniolo, per un valore complessivo di € 636.000.
    Ai riconoscimenti agli studenti più brillanti si accostano gli strumenti di supporto a chi attraversa difficoltà: un rinnovato programma di tutoraggio ha consentito di dimezzare il tasso di abbandoni nei primi anni di studio.
     Ci impegniamo inoltre, continuamente e convintamente, per favorire l’esperienza universitaria degli studenti con disabilità non solo sul piano economico, con l’esenzione totale dal pagamento delle tasse universitarie, ma anche a livello logistico, organizzativo e culturale. 
    Accogliere significa anche, in un’università moderna, favorire il completamento della formazione all’estero: nell’anno passato se ne sono avvalsi quasi tremila studenti; mentre oltre 4.600 sono gli studenti internazionali che hanno frequentato i nostri corsi; crescono i double degree e i corsi erogati in lingua inglese.
    Tra i partenariati strategici, tengo a segnalare che l’Università Cattolica è stata promotrice della costituzione della Strategic Alliance of Catholic Research Universities (SACRU), che coinvolge, oltre al nostro Ateneo, 7 prestigiose istituzioni universitarie cattoliche aderenti alla FIUC (Federazione Internazionale delle Università Cattoliche). Australian Catholic University; Boston College; Pontifícia Universidade Católica do Rio de Janeiro; Sophia University (Giappone); Universidade Católica Portuguesa; Universidade Pontifícia Católica del Chile (Cile); Universitat Ramon Llull (Spagna).
    Il nuovo network ha lo scopo di favorire la collaborazione reciproca a livello di insegnamento, ricerca e servizi, per valorizzarne la presenza e rilevanza in seno alla comunità scientifica internazionale e nelle rispettive comunità nazionali.
    Accogliere significa, anche, farsi carico del futuro di chi oggi è studente, ponendo le premesse per un soddisfacente inserimento nel mondo del lavoro. L’89% dei laureati magistrali e a ciclo unico della Cattolica trova lavoro entro il primo anno dalla laurea. 
    Secondo lo “University Payback Index”, la Cattolica è tra le prime tre università italiane per ritorno dell’investimento universitario, e il medesimo studio rivela che il 40% dei nostri laureati ha ottenuto, nel tempo, la carica di quadro o dirigente.
    Ancora, secondo il 2020 QS Graduate Employability Rankings la Cattolica si conferma tra le prime università in Italia e tra le prime 130 al mondo.
    Accogliere, infine, significa anche offrire spazi materiali. Nell’epoca della comunicazione a distanza, dei rapporti virtuali, gli studenti manifestano un crescente bisogno di luoghi di presenza fisica, che oltre ad allocare le ordinarie attività accademiche offrano spazi di studio individuale, di socialità, di incontro. Che consentano agli studenti di “stare” nella loro università.
    Qualche tempo fa, per sintetizzare il nostro approccio come Ateneo, avevamo utilizzato questa frase: “perché le cose accadano ci vuole un luogo”. Oggi è ancora più vero. Perché un’università viva è necessario un luogo, una piazza, un chiostro, non un mero ambiente virtuale.
    Abbiamo perciò avviato importanti iniziative in tutte le sedi.
    A Brescia sarà completata, nell’estate 2020, la nuova struttura di Mompiano, che si aggiungerà alla storica sede di Via Trieste. Sarà un vero nuovo campus, dotato di aule per 2.000 posti, laboratori di informatica e di fisica, sale studio per 220 posti, una biblioteca con 180.000 volumi e 70 posti, e molte altre aree e servizi nel contesto di 16.700 mq. di spazi esterni. 
     A Piacenza è in fase di valutazione l’allestimento di nuovi spazi, a Cremona, dal 2020, l’Università Cattolica farà ingresso nel nuovo campus dell’ex Monastero di Santa Monica.
    A Roma si sta attuando il piano quinquennale partito nel 2015 per la riqualificazione architettonica degli spazi dedicati agli studenti e si sta progettando la realizzazione di una nuova torre destinata in modo integrato ad attività assistenziali, didattiche e di ricerca.
    Milano è certamente la sede che maggiormente soffre per il bisogno di spazi. Ci stiamo molto impegnando da questo punto di vista. Grazie a un ingente investimento economico, l’Università Cattolica potrà contare su 1.200 posti studente in più entro il 2021
    Nel nuovo stabile di Via Olona 2 sono già in uso 270 posti aula e, entro il secondo semestre del 2020, saranno disponibili complessivamente 400 posti.     
Negli ultimi mesi del 2020 saranno approntati altri 200 posti studente nel compendio immobiliare di via San Vittore 35, di cui fa parte anche il Collegio Ludovicianum.
    È stato inoltre approvato dal Comune di Milano il progetto di ristrutturazione dell’edificio di via Lanzone 14, che porterà altri 450 posti aula entro il 2021. 
    Si segnala, ancora, la ristrutturazione del centro Fenaroli, sede del corso di laurea di Scienze motorie e dello sport.
    Prosegue, con impegno incessante, l’articolato processo per la realizzazione della nuova sede nella Caserma Garibaldi. Sono in corso le attività di progettazione esecutiva della ristrutturazione della Caserma Montello, in piazza Firenze, che dovrà accogliere le attività della Polizia di Stato e consentire l’integrale rilascio della Garibaldi; il completamento della fase di progettazione è previsto per il primo semestre del 2020 e successivamente potranno essere avviate le procedure per l’affidamento dei lavori. 
    Soprattutto attendiamo, a breve, dall’amministrazione a ciò competente l’adempimento dell’obbligo contrattualmente assunto, a fronte degli oneri economici che l’Ateneo sta già sostenendo – di consegnare la porzione della Caserma Garibaldi prospiciente via Santa Valeria. 
    Ringrazio per il contributo alla realizzazione di questa complessa operazione le Autorità comunali e regionali nonché, in particolare, il Prefetto di Milano, il Questore e la Polizia di Stato, per avere con disponibilità predisposto la liberazione degli spazi a noi destinati nell’ambito della Garibaldi. Confido perciò che quanto pattuito e da tutti condiviso si possa celermente attuare.

    8. Avviandomi alla conclusione del mio discorso formulo, secondo tradizione, i più vivi ringraziamenti a tutti coloro che hanno contribuito all’adempimento della missione dell’Ateneo:
    • al Consiglio di Amministrazione e al Senato Accademico per il lavoro svolto con competenza e dedizione alla nostra Università;
    • al nostro Assistente Ecclesiastico Generale, Sua Eccellenza, Mons. Claudio Giuliodori, la cui presenza, in seno alla comunità universitaria, costituisce un riferimento e un sostegno prezioso per orientarne il cammino ecclesiale, e insieme a lui ringrazio tutti i nostri assistenti pastorali e docenti di teologia;
    • ai colleghi che più direttamente mi assicurano il loro contributo all’assolvimento dei doveri del mio ufficio: il Prorettore Vicario, Prof.ssa Antonella Sciarrone Alibrandi, il Prorettore, Prof. Mario Taccolini, i Delegati rettorali Proff. Rocco Bellantone, Pier Sandro Cocconcelli, Fausto Colombo, Luigi D’Alonzo, Giovanni Marseguerra, Mario Molteni, Federico Rajola, Roberto Zoboli. A tutti auguro buon lavoro.
    L’espressione della mia gratitudine si estende ancora:
    • ai Presidi per il lavoro quotidianamente svolto nelle proprie facoltà e collegialmente nel Senato Accademico.
    In ossequio a una nostra sentita consuetudine, menziono ora i docenti e i ricercatori della sede milanese che sono giunti alla conclusione del loro percorso accademico ufficiale. Ringrazio, pertanto:
i professori ordinari:
•    Massimo DE LEONARDIS (Storia delle relazioni internazionali)
•    Claudio DEVECCHI (Economia aziendale)
•    Giuseppe FRASSO (Filologia della Letteratura italiana)
•    Dante José LIANO (Lingua e Letterature Ispano-Americane)
•    Luca RADICATI DI BROZOLO (Diritto internazionale) 
•    Ermanno PACCAGNINI (Letteratura italiana contemporanea)
la professoressa associata:

•    Maria AMBROSANIO (Scienza delle Finanze)
Ricordiamo inoltre, con profonda commozione, tutte le persone che, fra nuovi e antichi docenti, personale tecnico-amministrativo e studenti, hanno fatto ritorno alla casa del Padre nel corso dell’ultimo anno. Commemoro, in particolare, coloro i quali hanno insegnato nella sede milanese: Giovanni Ancarani, Cristina Bosisio, Alberto Mazzoni; don Norberto Galli, Assunto Quadrio Aristarchi.
    Nel nostro presente e prossimo futuro c’è anche un passo importante che riguarda la governance dell’Università e delle istituzioni collegate. 
Il professor Marco Elefanti ha assolto dal 1 gennaio 2011 le funzioni di Direttore Amministrativo. In questo periodo di tempo ha, tra l’altro, concorso in modo determinante al risanamento del Policlinico Gemelli e alla realizzazione della complessa operazione di conferimento dell’ospedale nella nuova Fondazione; ha favorito la crescita dell’Ateneo, non interrotta neppure nella fase difficile della crisi globale; ha promosso e attuato un sostanziale riordino organizzativo e ha ottenuto importanti risultati gestionali in termini di espansione delle attività e delle strutture dell’Ateneo e di consolidamento dell’assetto economico. 
    Per due intensi anni, rispondendo con generosità ad un’urgente chiamata, il professor Elefanti ha sommato al ruolo di direttore amministrativo dell’Ateneo quello di direttore generale del Policlinico Gemelli. 
Ora, giunto alla naturale scadenza dell’incarico di direttore amministrativo, ha deciso di concentrare le sue energie nell’impegnativo compito di governo del Policlinico.
    Caro Marco, personalmente Ti ringrazio per l’amicizia e la lealtà dimostrata in questi anni di collaborazione; sono stati anni di lavoro intenso e di non poche preoccupazioni in alcuni momenti, ma siamo stati confortati dalla certezza di aver dispiegato ogni sforzo per agire al meglio. Rassicurati da una piena reciproca fiducia, siamo riusciti a compiere rapidamente anche le scelte più delicate; e questo ci ha permesso di condividere anche qualche soddisfazione.
    A nome dell’intero Ateneo Ti ringrazio per la competenza, la dedizione e le capacità messe al servizio della nostra Università, conseguendo risultati che resteranno nel tempo.
    Ti auguro altrettanti successi nella responsabilità di direttore generale del nostro Policlinico.
        Sono in pari tempo assai lieto di accogliere nella famiglia dell’Università Cattolica il dott. Paolo Nusiner, che il consiglio di amministrazione ha unanimemente chiamato alla direzione amministrativa dell’Ateneo a partire dal prossimo gennaio. Gli auguro buon lavoro, certo che saprà portare la sua esperienza e le sue riconosciute doti professionali e personali nella nostra Università, guidando l’amministrazione nelle affascinanti ma ardue sfide che ci attendono.

    9. Siamo giunti alla conclusione. Ho preso avvio parlando di un compito nuovo, della chiamata a pensare nuovi canoni di interpretazione della realtà e dei rapporti sociali. Uno sforzo collettivo che l’Ateneo potrà condividere, facendone il cuore delle attività del proprio imminente anniversario, affinché sia non soltanto occasione di giusta celebrazione e ricordo, ma riaffermazione e rigenerazione di ciò che l’Università Cattolica essenzialmente è nata per essere ed è stata: un progetto culturale a servizio della Chiesa e della collettività. 
    L’Ateneo ha le capacità per concorrere al compito delineato dal Santo Padre; in questi ultimi anni, pur in uno scenario non facile, è cresciuto nelle dimensioni e ha rafforzato la propria reputazione nazionale e internazionale. Soprattutto ha mantenuto intatta la tensione e la passione che ne hanno ispirato la nascita.
    Perseguendo sempre nuovi obiettivi, la nostra comunità è rimasta, nel volgere delle stagioni, ancorata alla propria identità e ai propri valori. Questa continuità è anche rappresentata fisicamente dal luogo nel quale ci troviamo. Ho prima illustrato gli sforzi che si stanno compiendo per ampliare la nostra casa, per offrire a tutti spazi più accoglienti, caratterizzati da uno stile di bellezza e di calore umano. Sono il segno che qui i saperi crescono nelle menti e nei cuori di persone, grazie all’incontro e al dialogo. È in questo spazio che i professori e il personale amministrativo incontrano gli studenti. È in questo spazio che gli studenti di ieri tornano per essere professori, dipendenti, amici.     
    Possiamo vantare – non a caso – una comunità di alumni numerosa e cosmopolita, che da tutto il mondo ci manifesta sentimenti di gratitudine e affetto, e che ci stimola sempre di più a rendere accogliente la nostra casa – in senso materiale e ideale.
    Come in tutte le case, i decori e gli arredi sono memoria e identità. Alle mie spalle c’è un bellissimo affresco che rappresenta le nozze di Cana. Niente testimonia meglio di questo episodio del Vangelo di Giovanni la costruzione e l’appartenenza a una comunità. Non c’è miglior sintesi di quanto ho cercato di dire in questo mio discorso di inaugurazione.
    È il “primo dei segni”, in certo modo il più terreno. Esprime la partecipazione generosa di Dio alle gioie degli uomini.
    Ma suggerisce anche il significato del nostro abitare questo luogo, nel quale ogni anno vi accogliamo, care studentesse e cari studenti. Invitati alla festa, in questa casa comune, portate l’acqua della vostra intelligenza che sarà trasformata nel vino della conoscenza. A noi docenti e a tutti coloro che lavorano nel nostro Ateneo il compito di servire il vino migliore per tutta la durata della festa.
    Grazie dunque a tutti voi per essere la forza, l’energia, il presente e il futuro della nostra famiglia, la grande famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. 

* rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano, 28 novembre 2019