di Gianluca Pastori*

L’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca ha cambiato molte regole nel gioco della politica americana. Ha riportato in auge un modo di fare politica apparentemente dimenticato, in cui il forte richiamo alla legittimazione popolare fa del Presidente, più che il contraltare, il rivale di un Congresso presentato sempre più come strumento nelle mani delle macchine partitiche.

In campo internazionale, l’ambizione a ‘fare l’America di nuovo grande’ si è tradotta da una parte nell’assunzione di posizioni ostentatamente aggressive, dall’altra in scelte spesso etichettate come ‘neo-isolazioniste’. Il rapporto con l’Europa si è anch’esso deteriorato: da un lato, in seguito alle parole del Presidente sull’obsolescenza del tradizionale legame di sicurezza e dell’organizzazione in cui esso si incarna (NATO), dall’altro, di fronte all’accentuarsi delle tensioni interne al vecchio continente e alla crescente differenziazione delle posizioni nazionali al suo interno.

Che strada hanno, quindi, deciso di prendere gli Stati Uniti di Trump? Soprattutto: che cosa ci hanno insegnato i mesi trascorsi dall’insediamento, le frizioni e gli screzi che li hanno punteggiati rispetto al ruolo che Washington potrà/vorrà assumere nel mondo negli anni a venire?

Il punto di partenza è la constatazione di come – almeno in campo internazionale – la ‘rivoluzione Trump’ sia più apparente che reale e di come essa riguardi più la forma che i contenuti. Il dato davvero ‘eversivo’ della politica trumpiana è il linguaggio, più che il messaggio. Questo, al contrario, recupera tendenze strutturali alla politica statunitense specie dopo la fine della guerra fredda. La riscoperta del ‘sacro egoismo’ incarnato nello slogan ‘America first’, ad esempio, risale almeno alla prima presidenza Clinton (1993-97), quando la crisi del ‘nuovo ordine mondiale’ delineato da George W.H. Bush riporta al centro del dibattito pubblico l’idea di interesse nazionale.

Qualcosa di simile è vero per il ridimensionamento del multilateralismo (concetto che è riformulato negli stessi anni come multilateralismo à la carte) o per l’allentamento dei rapporti con l’Europa, che con toni più o meno accesi segna tutti gli anni Duemila e che si concretizza nella politica obamiana del ‘pivot to Asia’. Vale la pena di osservare come queste politiche, da una parte risultino sostanzialmente trasversali alle amministrazioni, dall’altra godano, nel Paese, di un sostegno bipartisan che solo negli ultimi tempi pare essere venuto meno.

Soprattutto per l’Europa, le implicazioni di questo stato di cose sono molteplici. Se la ‘rivoluzione Trump’ non fa che confermare la rotta su cui gli Stati Uniti sono avviati da tempo, i margini per un ripensamento del ‘patto transatlantico’ (‘transatlantic bargain’) si fanno sempre più stretti.

Dopo gli screzi del 2002-03 e i rapporti difficili negli anni di George W. Bush, l’arrivo alla Casa Bianca di Barack Obama aveva fatto sperare in un riavvicinamento fra le due sponde dell’Atlantico, riavvicinamento che si è dimostrato, invece, illusorio. Al contrario, quelli di Obama sono stati anni di crescenti divaricazioni su una serie di punti importanti, dalle relazioni con la Russia alla crisi siriana. Solo alla fine del mandato, con la prospettiva concreta di una vittoria di Trump, la dimensione conflittuale è stata accantonata per una narrativa più attenta agli aspetti di convergenza. Ciò non ha, comunque, modificato l’essenza di un legame che – con il venire meno del comune nemico sovietico – sembra essersi via via deteriorato e che oggi, proprio con Trump problematicamente insediato nello Studio Ovale, sembra avere raggiunto uno dei suoi punti più bassi.

*professore associato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa e docente del corso di laurea in Scienze politiche e relazioni internazionali di Brescia.