di Sara Gabbas *

Sono le cinque del mattino all’aeroporto di El Alto, in Bolivia. Prima di partire avevo deciso di raccogliere poche informazioni sulla cultura e i luoghi che avrei incontrato. Sarebbe stata sufficiente qualche raccomandazione per il freddo dei 3640 metri della città di La Paz. Contrariamente alle aspettative che facevano pensare a un impatto a zero gradi, io e Clara, la mia compagna di avventure, siamo state accolte da quattro gradi: due per ciascuna. È stato il primo dei tanti regali che la Bolivia aveva deciso di farci.

Durante il tragitto per arrivare alla parrocchia di Munaypata dove saremmo stati ospiti, i nostri occhi continuavano a muoversi rapidamente a destra e sinistra, nel timore di farsi sfuggire anche una sola istantanea di quella realtà a primo impatto così diversa dalla nostra. Tutt’intorno, nel caos del traffico e dei venditori ambulanti, il rosso dei mattoni delle case sembrava scortare il nostro arrivo con costanza e pazienza.

Giunte a destinazione, è stato semplice intuire come il freddo del clima sarebbe stato compensato dal calore delle persone. La spontaneità dei sorrisi, degli abbracci e dell’affetto dei bambini dell’oratorio ci hanno fatto capire con facilità che tutto ciò sarebbe diventato la nostra quotidianità.

E così è stato anche al Centro de Rehabilitación Neurológica Infantil “Mario Parma” e al comedor, le due realtà cui abbiamo fornito il nostro piccolo contributo. Il primo mi ha consentito di mettermi alla prova sul piano professionale. Affiancare due psicologi e fornire supporto alle famiglie nella diagnosi e nella terapia dei piccoli è stato per me un forte stimolo e un terreno fertile sul quale concretizzare le conoscenze apprese nel triennio.

Entrare in contatto con la vita di Eliana, José Fernando, Neymar, Alexia, Mathias, Cristofer e tanti altri bambini, è stato come osservare dallo spioncino le contraddizioni della cultura boliviana. Nel Centro, così come al comedor, la mensa dove confluivano i marmocchietti del quartiere della Portada, ho capito l’importanza della presenza, fisica ed emotiva. Aiutare a mangiare i più piccolini o dare consigli sull’amicizia ai più grandicelli, mi ha fatto riflettere sul peso che l’assenza di un contatto fisico o una parola può avere.

Man mano che la nostra esperienza proseguiva, mi sono resa conto che le storie di vita dei piccoli che incontravamo si ripetevano: genitori fisicamente ed emotivamente assenti, denutrizione e problemi di salute erano costanti di gravità variabile. Solo i dettagli consentivano di cogliere le sfumature che rendevano peculiare ciascuna di esse. Meno variabile era, invece, la spensieratezza dei bambini nel vivere le giornate. Era disarmante la spontaneità con cui ci riempivano di abbracci e sorrisi e l’entusiasmo con cui ci coinvolgevano nei loro giochi.

Il confronto con la società europea è stato quasi automatico: è difficile comprendere e accettare che dei bambini incontrati non avessero mai mangiato la pizza, non fossero andati al cinema o, semplicemente, non avessero mai visto il mare. Eppure, o forse proprio per questo, ognuno di loro mi ha saputo trasmettere la gioia del portare a casa un pezzo di pane o avere un paio di calze quando il freddo si impadronisce delle strade e delle case.

Ogni piccolo amico mi ha donato qualcosa di grande. Sono stata anche insignita del titolo di “hermana”: mentre a loro lasciavo la rassicurazione di essere una “suora in borghese” come tante del luogo, tenevo per me la felicità di essere semplicemente la loro sorella maggiore.

Perché in fondo, la Bolivia, è stato questo per me: una seconda famiglia. E chi, se non la famiglia, ti aiuta nel percorso di crescita? Ringrazio, perciò, ogni membro della mia nuova casa per avermi aiutato a trovare risposta a numerosi quesiti e aver alimentato in me numerosi altri interrogativi. Grazie a padre Fabio, padre Giovanni, Paola e Alessandro per avermi trasmesso l’entusiasmo, l’intraprendenza e la voglia di fare senza pensare alla fatica. Grazie a Elsa, la nostra mamma boliviana. Grazie a Isabel e Jaime per avermi aiutato a vedere più da vicino le difficoltà e le contraddizioni del popolo boliviano.

Grazie al Charity Work Program perché in tempi di incertezze e paura del futuro, avere la possibilità di fare simili esperienze aiuta i giovani a porsi obiettivi e a credere nella possibilità di impiegare in modo utile la propria vita. Ma soprattutto grazie a ogni bambino incontrato per avermi trasmesso gioia, serenità e spensieratezza, per avermi aiutato a riflettere e per avermi dato una conferma sul percorso professionale che ho deciso di intraprendere.

* 22 anni, di Oliena (Nu), primo anno della laurea magistrale in Psicologia dello sviluppo e dei processi di tutela, facoltà di Psicologia, campus di Milano
http://milano.unicatt.it/facolta/psicologia