di Saverio Gentile *
Ottant’anni sono una buona occasione per ricordare una delle pagine più buie della nostra storia: quella delle “leggi razziali”. Soprattutto nella confusa incertezza dell’oggi, in cui paiono riaffacciarsi vecchi pericoli e nuove tentazioni e tornano ad aggirarsi sulla scena antichi fantasmi. Anche in ragione di una classe politica, italiana ed europea, del tutto incapace di andare oltre un incerto, e quanto mai pericoloso nelle sue conseguenze, balbettio.
Nell’allora Regno d’Italia, con l’emanazione dei “provvedimenti per la tutela della razza”, a far data dal settembre 1938, il regime fascista ha scatenato una vera e propria persecuzione giuridica nei confronti dei cittadini italiani considerati di razza ebraica. Si è trattato di una congerie di provvedimenti normativi - il più importante dei quali è certamente stato il Regio Decreto Legge 17 novembre 1938 n. 1728 - e amministrativi per effetto dei quali ogni attività di studio e di lavoro venne loro vietata, tanto che i divieti imposti finirono con il rivelarsi talora addirittura più duri di quelli della Germania hitleriana. Ne restò escluso il solo diritto alla vita, anch’esso annientato nel buio biennio della Repubblica di Salò quando si realizzò una vera e propria caccia all’ebreo da parte dei nazisti, con la complicità dei repubblichini.
Tuttavia, a osservare con attenzione, oltre l’assoluto protagonismo di Benito Mussolini - il quale, con il silenzio complice della Monarchia, ha voluto pianificato e gestito in prima persona l’intera, dolorosissima, vicenda - occorre rimarcare una circostanza realmente decisiva. Emerge, infatti, una responsabilità corale e diffusa ai più vari livelli della società. Nella fase dell’iter legis, ad esempio, si riscontra come le commissioni parlamentari abbiano non di rado accentuato la durezza dei provvedimenti.
E ancora. Per taluni la legislazione antiebraica, accolta senza disagio, si è risolta in un comodo strumento di promozione sociale, venendo declinata per conseguire meri interessi personali. Così, in tema di libere professioni, ad Alessandro Pavolini, presidente della Confederazione Fascista dei Professionisti e Artisti, nell’agosto 1938 la svolta antisemita appariva di rara tempestività potendosi, in forza dei provvedimenti discriminatori, “finalmente risolvere la questione dell’invadenza ebraica negli albi professionali” tanto che “con la netta proclamazione dell’antiebraismo italiano, divenuto senz’altro uno dei cardini fondamentali della dottrina fascista, i professionisti italiani hanno visto la possibilità, e vorrei dire la certezza, di veder finalmente risolto il problema lungamente dibattuto nella vita sindacale e di notevolissima portata sia morale e politica sia economica per l’alleviamento di quella che, almeno in alcuni campi, può chiamarsi senza eccessivo pessimismo la crisi delle professioni libere”. Ma il discorso in realtà può estendersi a innumerevoli altri settori.
Insomma, vi fu certo cinismo, opportunismo, necessità economica e semplice acquiescenza. Ma vi fu anche (non poco) consenso da parte degli italiani verso quella che senza dubbio fu la pagina di gran lunga più vergognosa dell’intera storia giuridica nazionale, che non mancò poi di far sentire i suoi effetti a contrario anche sulla Costituzione della Repubblica italiana. Basti pensare all’articolo 3, I comma, che sancisce, tra l’altro, la pari dignità sociale di tutti i cittadini e l’eguaglianza di fronte alla legge senza distinzione di razza; o all’articolo 22, laddove afferma che nessuno possa “essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.
Capire come tutto ciò sia stato possibile è fondamentale perché non ritornino i fantasmi del passato. Per questo appare quanto mai utile, specie per le generazioni più giovani, ricordare, in un processo di acquisizioni consapevoli, ciò che è stato. Perché l’oggi sia migliore di ieri e, soprattutto, e a sua volta, il domani possa rivelarsi migliore di oggi.
* ricercatore in Storia del diritto medievale e moderno, facoltà di Giurisprudenza
Saverio Gentile è stato uno dei principali relatori del convegno organizzato dalla Unione delle Comunità ebraiche italiane insieme alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, in programma mercoledì 24 gennaio a Roma, nella Sala Capitolare presso il Chiostro del Convento di Santa Maria sopra Minerva. Al convegno, sul tema “La vera legalità. Dal ’38 ad ottant’anni dall’emanazione dei provvedimenti per la tutela della razza”, sono intervenuti, tra gli altri, anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il Presidente della Suprema Corte di Cassazione Giovanni Canzio, e il Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura Giovanni Legnini.
L’intervento di Saverio Gentile è stato dedicato a “La legalità del male. Riflessioni sul ruolo delle circolari amministrative nella persecuzione giuridica”