Per scegliere dove continuare gli studi si informano soprattutto sul web; la persona con cui si confrontano di più è la mamma; desiderano che l’Università sia un luogo di vita e di relazioni significative e perciò, dopo i lunghi mesi della scuola da remoto, ritengono che la didattica a distanza debba essere utilizzata solo in caso di necessità e comunque integrata con la didattica in presenza. Infatti, il 64% è orientato a proseguire gli studi e tra questi quasi 8 su 10 pensano di iscriversi all’università, puntando a un Ateneo che eroghi i corsi principalmente in presenza. Una significativa minoranza (13%) si orienta verso percorsi di studio che offrano sbocchi di utilità sociale e servizio agli altri.

Sono alcuni dati emersi dall’indagine La scelta universitaria al tempo del Covid-19 condotta dall’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo e da Ipsos tra il 10 aprile e 28 maggio 2020 - quindi in piena fase 1 e all’inizio della fase 2 dell’emergenza -, con il coinvolgimento di 1000 18-19enni, frequentanti l’ultimo anno delle superiori. Il campione ha rispettato l’attuale distribuzione degli studenti della scuola, che vede una prevalenza dei licei, seguiti dagli istituti tecnici e dagli istituti professionali.

I risultati dell’indagine sono stati presentati mercoledì 24 giugno in occasione del webinar “La scelta universitaria ai tempi del Covid-19. Indagine rappresentativa sui maturandi italiani”, promosso dal Toniolo e dell’Università Cattolica.  È toccato a Elena Marta, docente di Psicologia sociale e di Psicologia di comunità, autrice dello studio assieme con Pierpaolo Triani, docente di Pedagogia generale, illustrare alcuni aspetti salienti. Per esempio che per il 68% degli intervistati frequentare fisicamente l’università consente di “sviluppare amicizie e nuovi legami”; il 55% è dell’idea che “incontro e confronto con i docenti qualificano la formazione universitaria”. Più della metà dei giovani intervistati ritiene che il Covid-19 non abbia inciso sulla scelta circa il percorso post-diploma. Vanno peraltro messe in evidenza alcune consistenti “minoranze”: il 15% pensa che l’emergenza abbia influenzato pesantemente le decisioni; il 14% ha optato per un Ateneo vicino a casa e il 13%, dato di sicuro interesse, si orienta verso studi che permettano di aiutare maggiormente gli altri. Tale percentuale sale al 17,6% nell’area del Nord-Est.

A commentare i dati dell’indagine, coordinati dal giornalista Roberto Fontolan, sono stati i rettori Franco Anelli, dell’Università Cattolica, e Elio Franzini, dell’Università degli Studi di Milano, il giornalista Mario Calabresi, e Michele Faldi, direttore Offerta Formativa in Cattolica.

«Gli studenti sanno benissimo che la scelta del percorso di studi universitari condizionerà il loro futuro e si rendono conto dell’importanza di scegliere un corso di studi che li motivi nella prospettiva di fare un lavoro che piaccia», ha osservato il rettore Anelli. «Sono anche consapevoli di prepararsi a trovare una occupazione che richiederà un continuo aggiornamento». L’altro tema evidente, ha aggiunto il rettore dell’Università Cattolica, «è che gli studenti l’università vogliono frequentarla davvero per entrare a far parte di una comunità; per gli studenti l’università diventa occasione per raggiungere traguardi professionali più gratificanti di chi rinuncia alla formazione universitaria per provare a entrare subito nel mondo del lavoro, che non è solo fonte di reddito».

Per il rettore Anelli «nella fase di lockdown tanti studenti non solo sono stati costretti ad abbandonare programmi di formazione internazionali, ma si sono rivolti anche ad atenei più prossimi ai luoghi di residenza. Oggi, nella Fase 2, la risposta probabilmente sarebbe diversa, anche condizionata dalla capacità delle università di rispondere con una didattica innovativa sul piano tecnologico e adeguata all’emergenza». Certamente «non è intenzione della nostra università, come pure degli altri atenei “tradizionali”, di trasformarsi in università telematiche. Però questa emergenza ci ha fatto imparare cose nuove che ci permetteranno di accogliere al meglio gli studenti alla ripresa delle lezioni in autunno e di arricchire stabilmente la nostra capacità di proporre didattica innovativa, dotando tutte le università di tecnologie per svolgere anche formazione a distanza. L’obiettivo è di offrire agli studenti una formazione universitaria compiuta che consenta loro di acquisire competenze e capacità indispensabili per affrontare le complessità del mondo», ha dichiarato il rettore della Cattolica.

Secondo Elio Franzini, rettore dell’Università degli Studi di Milano «l’indagine fa capire uno spaccato della generazione che accoglieremo il prossimo anno nelle nostre aule», fatta di «persone realistiche e concrete». Si tratta di una generazione, che «da una parte, cerca il contatto con gli altri, dall’altra, molto uguale a quello che sono i giovani: desiderosi di socializzare, di essere insieme e di vivere l’università».

Un grande punto interrogativo riguarda il numero di studenti che hanno deciso di non iscriversi all’università. «Nel momento in cui vi è un impoverimento profondo del Paese e quindi delle famiglie – ha affermato il rettore Franzini – è chiaro che l’università può non essere vissuta ed è un errore che spesso viene compiuto. Ed è questo un punto interrogativo che angoscia noi rettori in quanto minore mobilità di studenti significa anche minori iscrizioni in un Paese che è il fanalino di coda nel mondo occidentale come numero di laureati e rischia un ulteriore impoverimento a medio termine proprio grazie al Covid. Spero che i nostri governanti possano comprendere che investire in formazione e in ricerca sia l’unico modo per rispondere a questo impoverimento».

Di qui la necessità di incoraggiare i giovani a credere ancora nei propri sogni e a non «partire da dati preesistenti». Ne è convinto Mario Calabresi che dedica parte del proprio tempo a incontrare gli studenti delle scuole per spiegare il terrorismo a partire dalle sue vicende personali. «Questa ricerca ha delle caratteristiche interessanti tra cui quella di non essere abituati al fatto che gli studenti siano così concreti e con i piedi per terra». Eppure, ha continuato Calabresi, «l’ottimismo un tempo era molto più alto: anni di crisi di precarietà hanno insegnato ai giovani che devono sognare con il freno a mano tirato e questo è un problema. Quando parlo ai giovani quello che dico loro è di costruire un sogno senza condannarli ad avere un realismo superiore: se si è realisti sin dal primo momento non si costruisce niente di diverso dall’esistente». I giovani devono avere un «sano realismo» nel capire le difficoltà e nel «coltivare una idealità».

D’altronde, come ha notato Pierpaolo Triani chiudendo il dibattito, questa ricerca pur se realizzata in un momento difficile e inedito per i giovani, conferma che il «desiderio del futuro è più forte della paura».