Di Eliana Greco *

Errare humanum est. Il detto non esclude, purtroppo, i medici. Negli ultimi anni i casi sempre più frequenti di errori in ambito sanitario hanno richiesto una rimodulazione dei caratteri dell’illecito colposo. Una tematica di grande attualità ripercorsa in tutti i suoi rivolti da un’analisi condotta da Matteo Caputo, associato di Diritto penale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica, e raccolta nel volume Colpa penale del medico e sicurezza delle cure (Giappichelli, 2017). Con un obiettivo: cogliere e sviluppare i punti di contatto (o di difformità) tra l’elaborazione dottrinale e le soluzioni adottate dalla prassi, creando quel ponte tra norma ed empiria che rappresenta la sola condizione di possibilità del diritto.

«Il proliferare di imputazioni a carico del personale medico a fronte di episodi di malpractice implementa una certa “chiusura sistemica” della classe medica» ha osservato il rettore Franco Anelli intervenendo il 4 maggio alla presentazione del libro. «Il fenomeno della “medicina difensiva” designa proprio quella tendenza degli operatori sanitari a compiere “esami o procedure in eccesso” o, diversamente, a schivare situazioni particolarmente rischiose, per ridurre la possibilità di incorrere in responsabilità penale. Tale fenomenologia, che si lega all’aumento del contenzioso nei confronti dei medici e, più in generale, al profilo dell’”incertezza diagnostica”, compromette il costo, l’accessibilità e la qualità tecnica e interpersonale dell’assistenza sanitaria: molto spesso i pazienti sono sottoposti ad accertamenti dispendiosi e invasivi, che si rivelano perlopiù inutili a fini terapeutici».

A ciò, poi, va aggiunto il rilievo secondo cui il rischio insito nell’esercizio delle professioni sanitarie, oltre a essere ineliminabile, si lega non solo al ricorrere dei cosiddetti human factors e, in particolare, all’errore umano, che pure può interessare qualsiasi livello della sequenza procedurale, ma anche al più ampio piano della struttura organizzativa, che crea «un substrato morale e intellettuale interno, nel quale gli attori individuali tendono via via a identificarsi».

Circostanze di questo tipo rendono sempre più attuale la necessità di chiarire i criteri e i meccanismi di allocazione della responsabilità tra i vari “gestori” del rischio clinico: necessità che si è tradotta, a più riprese, nell’intervento del legislatore, che sul punto si è espresso con ben due riforme ‘di sistema’: dapprima l’art. 3 del d.l. 158/2012, poi gli artt. 5 e 6 della l. 24/2017, che “hanno ri-configurato la responsabilità nel settore medico, dando luogo a una complessiva rivisitazione degli statuti disciplinari degli specialisti della salute”.

Proprio la centralità che il tema della colpa medica ha assunto per la scienza penalistica ha imposto un ripensamento dell’illecito colposo in grado di valorizzare, ha specificato il preside di Giurisprudenza dell’Università Cattolica Gabrio Forti quelle «esperienze e acquisizioni interdisciplinari ormai ineludibili anche per il diritto penale, il cui impatto sulla fisionomia della colpa non è forse stato ancora adeguatamente assorbito».

Le tematiche trattate nello studio di Matteo Caputo investono, ha sottolineato il professor Forti, una pluralità di profili che attengono, solo per citarne alcuni, alla dimensione organizzativa dell’errore clinico, al suo inserirsi all’interno di una catena causale complessa, ma anche alla difficoltà definitoria della “colpa grave”, nel più ampio spettro della ponderazione del rapporto – sempre controverso – tra legislazione e giurisprudenza.

Tale ultimo spunto è stato discusso e approfondito dal presidente emerito della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che ha avviato una riflessione su profili, che, soprattutto nel campo della responsabilità medica, assumono un’importanza notevole: ci si riferisce, in particolare, al tema dell’autorità del precedente giudiziale – cioè del consolidamento di un certo orientamento giurisprudenziale a scapito di altri – definito come «isola di stabilità», che mira a creare un «orizzonte d’intesa» tra le opzioni in conflitto.

Ulteriori motivi di dibattito sono stati focalizzati negli interventi di Ombretta di Giovine, docente di Diritto penale all’Università di Foggia, e di Riccardo Zoia, presidente della SIMLA, i quali hanno evidenziato, rispettivamente, l’opportunità, da un lato, di riscontrare – in controtendenza rispetto all’opinione maggioritaria –, un «ragionevole progresso» nell’ambito della colpa medica a seguito delle menzionate riforme legislative; il radicamento, dall’altro, di una «autocoscienza medico-legale» che – non paga di se stessa, ma continuamente in cerca di validi punti di contatto tra medicina e diritto – sia in grado di riempire di cognizioni quel «dovere di riconoscere» nella situazione di fatto i segnali della possibile verificazione di eventi avversi (per prevederne ed evitarne la verificazione), che è alla base dell’imputazione penale a titolo di colpa.

Infine, Renato Balduzzi, docente di Diritto costituzionale e già ministro della Salute, ha posto in rilievo le ragioni della prima novella del 2012, individuando, in risposta alle osservazioni di alcuni commentatori, nell’articolo 3 della legge n. 189, «una domanda formulata per stimolare la motivazione». Una domanda, insomma, che, come lo stesso professor Caputo ha osservato nel suo studio monografico, «scuote l’interprete, e lo impegna a misurarsi con un’opzione di fondo: arroccarsi in una posizione misoneistica e censoria, oppure sforzarsi di ricondurre le scelte legislative a una visione di sistema, senza cedere a tentazioni demolitorie che lascerebbero il problema della responsabilità medica senza risposte».

Le vicende giuridiche che hanno caratterizzato nel tempo la responsabilità penale in ambito sanitario sintetizzano, in definitiva, quell’«altalena dialettica» tra paternalismo e personalismo, tra la libertà del volere terapeutico e la finalità di cura del paziente, in un contesto ove è sempre latente – e spesso insolubile – il conflitto tra l’“essere” e un “dover essere” che mal si presta a essere formalizzato in canoni deontici rigidi e sempre adeguati alla situazione con cui l’agente concreto è, di volta in volta, chiamato a confrontarsi.

* Dottore di ricerca in Diritto penale, Università Cattolica del Sacro Cuore