Hanno frequentato la scuola di giornalismo dell’Università Cattolica o hanno incarichi di docenza e sono in prima linea, su diverse testate, nel racconto della pandemia da Coronavirus. Ma testimoniano tutti insieme che i media, soprattutto online, restano ancora vitali. Le voci dei nostri reporter in una serie di articoli


di Alex Vicini *

«Amore ai tempi del Coronavirus», «Scuola ai tempi del Coronavirus», «Il mondo ai tempi del Coronavirus». Tutto avviene e si compie ai tempi del Coronavirus. Il fortunatissimo romanzo dello scrittore colombiano Gabriel Garcia Marquez L’amore ai tempi del colera sembra aver ormai contagiato tutti i campi del vivibile umano: dal lavoro alla scuola, fino alla politica e all’economia. I cittadini hanno accettato di chiudersi in casa, mentre medici e personale sanitario sono in prima linea. Ma non sono i soli, c’è anche chi si occupa d’informazione. 

È quello che fa Pierluigi Ferrari, giornalista Rai dal 1996, impegnato dal 2002 a svolgere il proprio servizio per la redazione regionale di Milano, cui unisce la docenza al corso di “Teoria e tecnica del giornalismo” nel campus di Brescia dell’Università Cattolica. In queste settimane sta raccontando ogni giorno il dramma della pandemia che sta flagellando la provincia bresciana, una delle aree più colpite del nord Italia insieme a Bergamo e Cremona.
 
Cosa significa essere giornalista “ai tempi del Coronavirus” e vivere in prima linea questa situazione? «Il giornalista continua a fare il suo lavoro, utilizzando il metodo proprio della professione, basato sulla trasparenza delle fonti e la verità sostanziale dei fatti. Con maggiori responsabilità visto il momento drammatico che il nostro Paese sta vivendo e la necessità di fornire informazioni precise e tempestive, a un pubblico che spesso le attende in modo spasmodico. In generale siamo caduti dentro un incubo a lungo annunciato, senza la necessaria preparazione. Devo dire però che i giornalisti - abituati a trattare con la vita e la morte - erano più attrezzati di altri, e bene o male hanno retto il colpo».

Immagino che la situazione sia molto impegnativa. «Non è facile mantenere il dovuto distacco nel mare di timori e sofferenza in cui nuotiamo ogni giorno. Ci sono momenti di sconforto. Ma devo dire che non è un male che i giornalisti sperimentino timori, smarrimento, anche la paura». 

Come si svolge il vostro lavoro in questa emergenza? «Ci capita di girare da soli per le città vuote, di raccogliere confidenze strazianti, richieste di aiuto. Sono sentimenti che devono trasparire nei racconti che facciamo, senza creare confusione, panico o disperazione, ma dipingendo un quadro che consenta anche a chi sta chiuso in casa di sentirsi responsabile di una grande impresa collettiva, quella che serve per uscire dalla crisi. Senza esagerare, naturalmente, ho visto anche colleghi vestire i panni del capopopolo, del giustiziere, del giudice, del poliziotto. Questo è sbagliato: ciascuno faccia la sua parte. Il politico il politico, il medico il medico, il giornalista il giornalista».

Quanto è importante, in questo momento, fare riferimento a un’informazione di qualità, basata su fonti verificate e proveniente da voci competenti? «È sempre fondamentale ma oggi diventa più evidente che nel recente passato, quando informazione e qualità erano considerate del tutto slegate tra loro. L’informazione gratis su Internet o niente, e la qualità considerata valore secondario dalla gran parte del pubblico convinto di potersi informare da solo e scettico nei confronti dei media tradizionali: giornali radio e tv in particolare. Tutte le ricerche confermano che con l’inizio della crisi del Coronavirus è aumentata la domanda di informazione di qualità e che a fare opinione non sono più i personaggi da talk o social ma gli specialisti». 

C’è in atto un processo di disintermediazione? «Le fonti oggi comunicano da sole. Il presidente del consiglio Conte ha addirittura usato per la prima volta Facebook per trasmettere in diretta una conferenza stampa. Lo fanno abitualmente i vertici di Regione Lombardia. I giornalisti si limitano a riferire, se possono fanno domande. Il loro lavoro in questi giorni è più rivolto al territorio - quando ci riescono e possono - per raccontare il mondo che sta fuori a chi sta chiuso in casa. Situazioni, testimonianze, verifiche di persona, ricostruzioni oltre le versioni ufficiali. C’è molto lavoro e mi sembra che venga anche apprezzato senza scadere nell’informazione a tesi, nel sensazionalismo o nella denuncia a prescindere». 

Quindi c’è bisogno di buon giornalismo? «Come ha sottolineato un’autorità in questo campo come il Reuter Institute dell’Università di Oxford, forse non ci siamo mai trovati in presenza di un terreno così favorevole alla diffusione delle fake news. Miliardi di persone chiuse in casa, impaurite, con la Rete come unico contatto con il mondo. In effetti ne abbiamo lette di tutti i colori. Si va dalla fake degli untori a quelle della cura miracolosa, fino alle campagne internazionali di propaganda (quelle più aggressive sono rivolte a mettere in cattiva luce l’Europa ed esaltare Cina e Russia). Tanto lavoro per fact-checker e debunker. Io preferisco cercare le notizie, piuttosto che scovare le notizie false, ma sono importanti entrambe le cose». 

Stiamo affrontando una prova durissima. «L’oggettività della notizia e la sua verità sono innegabili e intoccabili, ma quanto contano oggi i toni e i modi della comunicazione e di fare giornalismo? «Dal tono dei nostri reportage deve emergere la realtà. Se abbiamo paura si deve capire, se siamo tristi si deve capire, se siamo determinati anche. A maggior ragione oggi che, a differenza della maggioranza delle persone, noi giornalisti andiamo nei pronto soccorso, negli ospedali, dai sindaci e dai volontari, a casa dei malati. Ma un conto è far trasparire la paura, un altro provocare panico e terrore. Il confine è sottile, ma il professionista lo conosce e non lo supera. Non è neanche una questione di vendite e ascolti. Tv, Internet e giornali hanno guadagnato dalla crisi del Coronavirus, senza bisogno di esagerare. Almeno sul piano delle vendite, perché per quanto riguarda la pubblicità in molti si sono ritirati dal mercato non volendo associare il proprio brand a una situazione così triste». 

Come sta affrontando la sua professione in questo tempo? «Stiamo vivendo esperienze estreme. Per alcuni giornalisti il desk (addirittura quello di casa) è diventato l’unico modo di lavorare; al massimo si fa un’intervista via Skype. Altri hanno ritrovato in via esclusiva il marciapiedi. Secondo me è più facile trovare il tono giusto nel rivolgersi al pubblico per chi si trova per strada: incontrando i volti seminascosti dalle mascherine, sentendo le voci soffocate... Per loro c’è poco da esagerare o da minimizzare. Per chi sta in ufficio, invece, ci sono maggiori margini di manovra, ma anche di errore».

Si può ancora parlare di un giornalismo che dia speranza senza cadere in semplificazioni della realtà? «Anche la speranza sta dentro il racconto della realtà. Se siamo attenti ai segnali che il mondo ci manda non vedremo solo il dolore, ma anche la resistenza, la voglia di reagire. Ci sono i politici, i sacerdoti, i medici. Noi dobbiamo fare i giornalisti. Credo che sia una delle lezioni di questa crisi. Ciascuno deve fare la sua parte, fino in fondo, ma avendo chiaro qual è il fine e quali sono gli strumenti della propria professione».
 
Nel buio della notte, anche la scintilla più piccola fa luce. E la luce dà conforto e speranza. 

* secondo anno del corso di laurea triennale in Filologia moderna, facoltà di Lettere e filsofia, campus di Brescia, Università Cattolica