Esportazioni e filiera corta possono allearsi strategicamente per ridurre lo spreco nei trasporti. È il percorso che Simona Sandrini (al centro nella foto) propone di compiere per rendere più sostenibile la mobilità nei sistemi agro-alimentari. Un approccio che mette in gioco prospettive disciplinari diverse, dalle scienze agrarie alla pedagogia, dall’ingegneria all’economia. Multidisciplinare, del resto, è anche il percorso di studi di Simona, che a marzo ha conseguito il dottorato di ricerca in Agrisystem a Piacenza, in collaborazione con l’Alta Scuola per l’Ambiente della sede di Brescia dell’Ateneo con cui da qualche anno intrattiene una feconda consuetudine di ricerca.
«Dopo la laurea in Scienze dell’educazione, ho iniziato subito a lavorare. Presto mi sono resa conto che avevo bisogno di maggiori competenze» afferma Simona, che ha deciso così di iscriversi al corso di laurea magistrale in Progettazione pedagogica e formazione delle risorse umane nella sede di Brescia. «In quei due anni ho sviluppato l’interesse per la sostenibilità, alimentato successivamente dal master in Sviluppo umano e ambiente. Tramite assegni di ricerca, ho seguito due progetti di “mobilità sostenibile” in collaborazione con l’Autodromo di Monza e l’Agenzia Mobilità Ambiente Territorio del Comune di Milano (Amat)».
Da lì alla Scuola di Dottorato per il Sistema Agroalimentare (Agrisystem) della sede di Piacenza il percorso è stato coerente. E l’ha portata a sviluppare la tesi di ricerca sulla sostenibilità dei trasporti nei sistemi agro-alimentari, cioè del cibo dal campo alla tavola e anche oltre.
Come si è dipanato il suo progetto di ricerca? «Il “trasporto” accompagna tutto il processo agroalimentare e l’intensità del trasporto ha un trend destinato ad aumentare nel mercato globalizzato dei prodotti agroalimentari. Nell’opinione pubblica il tema della sostenibilità dei trasporti nelle filiere si è ampiamente diffuso. Si pensi all’idea tutta italiana di “km-zero”. Un concetto che, se analizzato dal punto di vista della mobilità sostenibile, significa maggiormente una vicinanza relazionale e una conoscenza diretta tra produttore e consumatore, non una garanzia di riduzione degli impatti dovuti al trasporto del cibo. Semplificando, un consumatore che facesse avanti e indietro dal campo dell’agricoltore con il proprio automezzo, inquinerebbe più che prendendo la metropolitana per andare al supermercato».
Cosa servirebbe, allora? «É necessario un approccio di ricerca interdisciplinare e sistemico, che promuova azioni sostenibili per la mobilità sulle lunghe, medie e corte distanze. Valutare quali minori impatti produce il trasporto, sia per le merci alimentari sia per le persone che si spostano per l’approvvigionamento, sia per i prodotti sia per le fasi della catena alimentare, implica stimare indicatori confrontabili per la filiera corta e lunga: serve stimolare un alleanza tra buone pratiche di filiera corta e filiera lunga».
Come si coniuga la progettazione pedagogica con la sostenibilità del trasporto alimentare? «Innanzitutto lo sguardo pedagogico considera il “fattore umano” tanto decisivo quanto “i fattori tecnici” nel tema complesso del sistema dei trasporti agroalimentari. Il focus può essere messo sulle scelte delle persone, che influenzano il mercato: la diffusione dell’idea di km-zero è un esempio eclatante. In secondo luogo l’approccio pedagogico permette di analizzare il contesto cercando di colmare i gap formativi: gli attori economici, i policy maker e i consumatori possono essere formati, i primi ad attuare e comunicare, i secondi a scegliere il cibo includendo in tale valutazione anche il peso reale del trasporto. Andando però oltre il concetto di “food miles” e integrando con nuove sollecitazioni il concetto di “km-zero”. Inoltre la progettazione pedagogica stimola l’azione, promuovendo l’impegno di tutti per ridurre realmente lo “spreco nel trasporto” dal campo alla tavola e dalla tavola al campo».