di Simone Filomia *

Terra rossa, baracche, fumo nero delle vecchie macchine e una povertà che non potevo immaginare: è il mio primo impatto con l’Uganda. Arrivati al Benedict Medical Center (BMC) di Kampala l’accoglienza affettuosa del personale rene meno ostile l’ambiente e, giorno dopo giorno, insieme ai miei compagni di viaggio, comincio a sentirmi sempre più a mio agio in questa realtà così diversa e lontana, scoprendo l’infinita bellezza celata sotto il velo di sporcizia e povertà. 

La vera ricchezza della gente ugandese non è il denaro, concentrato nelle mani di pochi, ma il sorriso che non abbandona mai le persone, e che porta persino i malati in ospedale a chiedere “come stai?” al medico prima che possa iniziare a parlare. Il mese trascorso in Africa è stato anche un viaggio dentro me stesso, alla ricerca dell’essenziale, di quella semplicità che porta la gente ugandese a vivere serenamente in condizioni inimmaginabili. 

Il 50% della popolazione ugandese è sotto i 15 anni, l’aspettativa di vita media è 45 anni. Per strada si vedono molti più bambini che adulti. La cosa più triste è che solo pochi tra loro hanno il privilegio di frequentare una scuola, perché il sistema scolastico è prevalentemente privato. È proprio l’istruzione ciò che manca a questi bambini, per poter riscattare la propria posizione sociale conservando il sorriso che così tanto risalta sulla loro pelle scura. 

Durante i fine settimana, uscendo da Kampala, raggiungiamo luoghi molto diversi dalla caotica città: la gente vive nelle capanne, ma la povertà che ci si presenta non è più dolorosa. Le persone vivono con estrema semplicità, tra le piantagioni di ananas, caffè, mais e banane, conducono una vita a ritmi lenti, nella beatitudine di chi forse è ignaro di cosa gli manca. Ma la domanda che mi sono posto è: manca davvero loro qualcosa? O siamo noi ad aver perso il senso di questa serenità?

Sono solo alcune delle domande che l’esperienza in Uganda mi ha costretto a pormi. Insieme ad altrettante emozioni provate dentro e fiori dell’ospedale: non potrò mai dimenticare la visita alla scuola elementare e all’orfanotrofio, e le avventure nella natura incontaminata, come il safari al Murchinson Park e il trekking alle Sipi Falls.

Nel corso dell’esperienza medica, trascorsa tra il BMC e il più attrezzato Nsambya Hospital, ho avuto l’opportunità di confrontarmi con casi clinici rari alle nostre latitudini, con un approccio basato molto sulla semeiotica clinica, vista l’indisponibilità economica della gran parte dei pazienti. Infatti in Uganda le persone pagano le prestazioni sanitarie che si possono permettere, solo la classe più ricca ha accesso alle assicurazioni. Pertanto l’esperienza clinica è diventata esperienza umana, in molti momenti triste e difficile da affrontare, in cui la morte è un evento frequente anche tra persone giovani e viene accettata come un momento purtroppo inevitabile. 

Uno degli ultimi giorni ci siamo fatti coraggio e siamo entrati nelle baracche, siamo andati a trovare le famiglie povere che vivono vicino al BMC e a portar loro qualcosa; ma in mezzo a fango, animali, latrine, baracche di pochi metri quadrati senza luce né acqua, in cui vivono anche sei-sette persone con un solo letto, non è stata la sofferenza a monopolizzare la nostra attenzione, ma la felicità dei bambini, decine di bambini vestiti di cenci che facevano a gara per darci la mano e giocare un po' con i mzungu (uomo bianco in swahili). 

E questo non poteva che lasciare un segno profondo nella mia vita: non è possibile tornare da questa esperienza senza sentirsi cambiati e arricchiti. 

* 23 anni, di Cosenza, studente al quinto anno di Medicina, facoltà di Medicina e Chirurgia, campus di Roma