di Damiano Palano *
Le campagne elettorali vivono sullo spettacolo e sulle sorprese. E anche se quella cui abbiamo assistito nell’ultimo anno non è stata certo la migliore campagna che si ricordi, si è indubbiamente conclusa con il più clamoroso colpo di scena. L’outsider per eccellenza, Donald Trump, è diventato il nuovo Presidente degli Stati Uniti. E quello che all’inizio delle primarie repubblicane sembrava più che altro una folcloristica comparsa, e che per un anno la stampa (non solo europea) ha dipinto come una grottesca combinazione tra Gian Burrasca e l’Orco delle fiabe, entrerà da trionfatore alla Casa Bianca.
È ovviamente difficile prevedere in quale direzione si muoverà la nuova amministrazione, anche se è probabile che le promesse di isolazionismo e protezionismo non troveranno una facile concretizzazione. E d’altronde è piuttosto complicato estrapolare qualcosa di simile a un programma di governo dal groviglio di proposte che Trump ha portato avanti durante la sua campagna. Più importante in questo momento è invece riflettere sulle motivazioni della scelta compiuta dagli elettori americani e sulle radici di quello che può davvero apparire come shock con pochi precedenti nella storia recente.
Molti osservatori hanno spiegato il successo di Donald Trump evocando l’idea di una “crisi” del sistema americano, il logoramento del ceto medio e la crescita della diseguaglianza. Non c’è dubbio che le radici di un fenomeno così dirompente come quello certificato dalle urne debba trovarsi proprio in una profonda trasformazione della società americana. Ma queste spiegazioni – che rimangono valide – rischiano di diventare generiche e di dimenticare uno degli aspetti cruciali che invece ci segnalano queste elezioni. Un aspetto che non riguarda tanto la paura, la disaffezione, il rancore verso le élite. Quanto le modalità con cui questi sentimenti vengono capitalizzati politicamente. E da questo punto di vista le elezioni americane ci dicono principalmente tre cose.
Innanzitutto, l’esito delle consultazione sembra confermare una tendenza che già da qualche anno è diventata sempre più evidente, ossia che l’elettore mediano non è più politicamente decisivo, perché la carta vincente è diventata la polarizzazione, la capacità di mobilitare elettori estremizzando il messaggio. In altre parole, per vincere le elezioni non è più indispensabile intercettare quell’elettore che si colloca al centro del mercato politico, e che è indeciso tra destra e sinistra, perché molto più importare diventa trascinare alle urne quegli elettori che tendono a non votare, mobilitandoli con messaggi fortemente radicali, fondati sulla “polarizzazione”.
In secondo luogo, ben più che le strutture di partito (controllate dai vertici e foraggiate dai grandi finanziatori), sembrano contare le ‘strutture personali’ che i leader possono utilizzare: tanto che proprio grazie a queste strutture – oltre che alla personalità dei singoli leader – qualsiasi partito diventa ‘scalabile’ anche dal più improbabile degli outsider (e il caso di Sanders, al di là degli esiti, è altrettanto significativo rispetto a quello di Trump).
Infine, i risultati che vengono dagli Usa ci dicono – con ancora maggior forza – che una comunicazione vincente non passa più dai grandi media generalisti, né dalla grande stampa, ma da altre strade, come sono soprattutto quei reticoli talvolta inafferrabili che sono i social network. D’altronde proprio questa dinamica – che tende a chiudere gli elettori in spazi sempre più autoreferenziali – contribuisce almeno in parte a spiegare la tendenza alla polarizzazione. E forse proprio per questo la vittoria di Donald Trump ci suggerisce l’idea che la società della disintermediazione è anche una società senza elettori mediani.
* docente di Scienza politica, facoltà di Scienze politiche e sociali, Università Cattolica