di Virginia Solitano *

Un medico ugandese mi disse: «Un mese in Africa equivale a un anno altrove». È la frase che mi ripeto ogni volta che noto che nel posto in cui vivo, tra le persone che conosco, è rimasto tutto esattamente come prima che partissi, mentre io mi trovo a scontrarmi con un grande vuoto interiore misto a un’inspiegabile energia.

Sono partita dopo essermi laureata in Medicina, senza sentirmi ancora un medico ma con la consapevolezza di non essere più una studentessa. In Uganda già al sesto anno si è considerati medici e questo ha fatto di me automaticamente “Doctor Virginia”. 

Così il primo giorno in cui ho varcato la soglia dell’Emergency Department dello Nsambya Hospital, dove si è svolta la gran parte della mia esperienza, mi sono sentita parte di un team in cui non rappresentavo il giovane medico mzungu (bianco) venuto dall’Italia a osservare o a giudicare, ma un giovane medico con cui lavorare insieme, da coinvolgere nelle decisioni terapeutiche, a cui chiedere informazioni non solo  sulle linee guida mediche italiane, ma anche sulle nostre tradizioni, con cui scherzare e da prendere in giro per qualche gaffes o errore determinato dall’inesperienza. Non scorderò le loro risate nel vedermi in difficoltà nell’individuare un livido sulla pelle di un paziente nero! 

L’intensità dei momenti trascorsi in ospedale include anche tutta una serie di aspetti che contribuiscono a rendere questa esperienza straordinaria. Le immagini che sono passate davanti ai miei occhi, in ospedale o per le vie di Kampala, sono inconcepibili per chi è nato e cresciuto in un Paese come il nostro. La povertà estrema è sotto gli occhi di tutti e l’ignoranza e la violenza sono spesso la causa di grandi sofferenze.

La situazione sanitaria è specchio di quello che ha luogo quotidianamente per le strade. La totale assenza di prevenzione fa sì che si muoia per non aver indossato il casco o per aver preso il motorino in quattro. La mancanza di sicurezza è tale che una donna che torni a casa al crepuscolo venga derubata e violentata; l’indigenza economica non permette ai pazienti di sostenere le spese terapeutiche per malattie quali l’ipertensione e il diabete o per una radiografia a seguito di un trauma. 

Spesso ho reagito male e chi mi stava accanto leggeva la rabbia e l’inquietudine sul mio volto, al punto che mi è stato detto che non ero ancora familiar with death and difficulties, cioè non avvezza né alla morte né alle difficoltà. Tuttavia è stato per me di insegnamento vedere i medici e gli infermieri non lasciarsi sopraffare dalla frustrazione per non poter intervenire di fronte all’ineluttabilità dei fatti, ma anzi lavorare con impegno ed abnegazione, anche quando le armi a disposizione erano pochissime. Il medico è veramente solo ed esclusivamente guidato dalla volontà di fare del bene, per quel determinato paziente, con la sua personalissima storia e, purtroppo, con il suo quantitativo di scellini in tasca, premessa su cui basare qualsiasi decisione.

La bontà d’animo che ho apprezzato nei medici appartiene anche al resto del popolo ugandese. Fin da subito ho capito che per loro non era ammissibile che io, mzungu, in salute e con tutti gli strumenti per realizzarmi a livello personale e professionale (sebbene a 24 anni fossi ancora inspiegabilmente senza prole!) potessi mostrarmi ogni tanto pensierosa, con uno sguardo assorto e interpretabile come malinconico. 

Allora la fatidica domanda: “Virginia, are you sad?”. Tutti, anche chi aveva cose ben più importanti e urgenti a cui pensare, si interessava al mio benessere e voleva che io fossi felice. Questo ha reso possibile ciò che si è verificato inevitabilmente: che mi svegliassi la mattina appagata e vitale, pronta ad affrontare una nuova giornata, con la piacevole sensazione di non essere un ospite in una terra straniera ma di essere a Casa. In ospedale avevo il mio ruolo, al di fuori avevo sempre persone eccezionali con cui relazionarmi e di cui ascoltare le storie, persino quelle più tragiche.

Oggi sono a Roma, nella mia città natale, con la mia famiglia e i miei amici ma il mio cuore è a Kampala, nel sorriso dei bambini, negli occhi stanchi degli anziani e nella terra rossa che mi sporca il camice bianco. 

* 24 anni, di Roma, neolaureata in Medicina e Chirurgia, facoltà di Medicina e Chirurgia, campus di Roma