“Chierici, cortigiani, battitori liberi. Quale ruolo per gli intellettuali?” è il titolo del convegno promosso dal centro di ricerca “Letteratura e cultura dell’Italia unita”, che si terrà mercoledì 30 ottobre in cripta aula Magna (largo Gemelli 1, Milano) a partire dalle 9.30.  In questa occasione il professor Giuseppe Lupo ha lanciato un dibattito a cui hanno aderito alcuni docenti della Cattolica. Pubblichiamo l’articolo della filosofa Ingrid Basso

di Ingrid Basso *

Se è vero che la filosofia “lascia tutto com’è”, secondo la celebre affermazione di Wittgenstein, se è vero che non è nella sua natura il mutare o addirittura il poter mutare gli stati d’essere, ma soltanto descriverli, o descrivere il linguaggio stesso che li esplicita, allora l’accusa di diserzione nei confronti dell’impegno politico ai danni dei filosofi – gli “intellettuali” per antonomasia – non avrebbe ragion d’essere. Questo per ragioni strutturali intrinseche alla natura stessa del filosofare in primis, e poi per ragioni etiche, nella misura in cui a chi spetta di leggere la realtà non dovrebbe competere di intervenirvi, pena una sorta di “conflitto d’interessi”. 

La seconda ragione è quella che sembra fondare la cosiddetta trahison des clercs di Jules Benda. Non a caso, tra i modelli di intellettuale propugnati da Benda troviamo Kant, secondo il quale «non c’è da attendersi che i re filosofeggino o che i filosofi diventino re, e neppure è da desiderarlo, perché il possesso della forza corrompe il libero giudizio della ragione». D’altronde già Plutarco, nel raccontare la vita di Pericle, commentava che la vita di un filosofo dedito alla speculazione e di un uomo politico non sono la stessa cosa: «Il filosofo muove la sua mente verso nobili fini, senza bisogno, per far ciò, di strumenti e materiali esterni; invece l’uomo politico deve mettere le proprie virtù a contatto con le basse esigenze dell’uomo comune».

E se ci si chiede, in tutto ciò, che ne sia stato della radicale proposta platonica che vedeva coincidenti la figura del sovrano reggitore della polis e quella del filosofo, si può rispondere che quello platonico era uno stato ideale, giammai reale. 

Abbiamo dunque due piani, quello del pensiero e quello della prassi, quello della cultura e quello della politica, e se ci ritroviamo a porre l’interrogativo del loro rapporto è soltanto perché la condizione nella quale viviamo non ci soddisfa. Ecco allora il perché, dinanzi alle situazioni di crisi, dell’accusa agli intellettuali di volta in volta di silenzio o di sterile lamentosità, di opportunismo o di diserzione, se non di disagio, disorientamento o di decadenza. Tali accuse si fonderebbero però, notava Bobbio – che sulla relazione tra intellettuali e potere fu interpellato in occasioni innumerevoli – sull’equivoco di un’ingiustificata antinomia tra le posizioni estreme e unilaterali della politica intesa come pura potenza (posizione incarnata da Machiavelli), da cui la scissione netta tra politica e cultura, e quella della politica come pura eticità (posizione resa emblematica da Hegel), in cui politica e cultura coincidono. Due posizioni in cui il rapporto mezzi-fini è distorto: nel primo caso il mezzo – la politica – è elevato a fine in se stesso, nel secondo caso è invece scambiato con il fine. 

Con la consueta pacatezza, è Aristotele che può aiutarci a dirimere la questione, spiegando che la politica ha un valore solo strumentale, è una tecnica che consente il raggiungimento dei veri fini attraverso una necessaria convivenza pacifica tra gli uomini (che per definizione sono “animali politici”, perché per loro natura non possono vivere soli): l’esercizio della coazione che contraddistingue la politica non è dunque essenzialmente intrinseco alla politica, ma è dovuto agli uomini stessi e al loro vivere secondo passione e non secondo ragione. Certo, è una concezione forte di ragione quella di Aristotele: qual è dunque il ruolo del filosofo, dell’intellettuale, in tutto questo? Come mantenere la posizione universalista della ragione in un mondo dominato dalle passioni? In fondo, di Socrate ne nasce forse uno ogni duemila anni… Come galleggiare sui flutti del mare in tempesta (l’immagine è ancora di Bobbio) evitando di finire respinti, senza accorgersene, in un’isola disabitata? Forse, rispettando la natura descrittiva che è propria del discorso filosofico, lo dicevamo inizialmente, evitando di cadere in un prescrittivismo che è inevitabilmente votato alla parzialità, il filosofo, l’intellettuale, può esercitare la funzione che gli è propria semplicemente dicendo la verità, dicendo la verità al potere, esercitando quindi la parresia. «Che un re o un popolo sovrano non lascino ridurre al silenzio la classe dei filosofi, ma la lascino pubblicamente parlare, è indispensabile agli uni e agli altri per avere luce sui loro affari» concludeva Kant in Per la pace perpetua

* ricercatrice di filosofia teoretica, facoltà di Lettere e filosofia, campus di Brescia e Milano


Quarto contributo di una serie di articoli dedicati al ruolo degli intellettuali

Nella foto in alto il giovane Alessandro Magno con Aristotele