Non è l’unico blogger a occuparsi del dramma dei Rohingya, ma di sicuro è il più giovane. Kyaw Kyaw Win, 26 anni, da due vive in Germania come rifugiato politico, dopo aver raccontato del genocidio perpetrato in quelle terre in un articolo pubblicato su ElephantJournal.com.

JoJo, come viene chiamato, braccato dalla polizia locale, è stato costretto a scappare. E ha raccontato la sua storia in un incontro, promosso dal professor Silvio Premoli, della facoltà di Scienze della formazione, e da Miriam Olgiati, di Amnesty International, in largo Gemelli lo scorso 20 marzo.

La questione dei Rohingya ha radici profonde: è una delle tantissime etnie del territorio birmano che dal 2012 non sono più riconosciute come tali dallo Stato. «Siamo fisicamente e religiosamente diversi da quello che è considerato il tipico birmano: i Rohingya infatti sono di pelle più scura e sono musulmani e rappresentano solo il 4% di una popolazione composta per il resto di bianchi e buddhisti. Una diversità utilizzata per non riconoscere più questa etnia e revocarle di fatto la cittadinanza».

Per questo sono diventati un popolo senza terra, costretto a fuggire in Bangladesh, Indonesia o Malesia, per chi ce l’ha fatta. Un milione di persone escluse dalla Costituzione. «Nel 2014 ho aperto la mia pagina Facebook da attivista - dice JoJo - dopo aver visto qualche tempo prima un documentario del New York Times. La stampa nazionale non ne parlava mai, al massimo venivamo definiti “bad people”, migranti venuti dal Bengala e musulmani».

Una luce sulla condizione dei Rohingya l’ha accesa la visita di Papa Francesco in Myanmar e Bangladesh nel novembre scorso. Un viaggio delicatissimo, che è riuscito a richiamare l’attenzione del mondo sulla questione. «L'aiuto che si può dare oggi?» si chiede Kyaw Kyaw Win. «Far conoscere a quante più persone possibili quello che sta accadendo».