di Edoardo Puglisi, docente di Microbiologia agraria alla facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali *
Due notizie hanno dominato le prime pagine dei giornali di inizio 2018: la polemica sull’adozione di sacchetti di origine biologica per l’acquisto di frutta e verdura nei supermercati e l’incendio (l’ennesimo in Italia) di un capannone dove erano stoccate materie plastiche in provincia di Pavia.
Notizie che confermano un dato di fatto: le plastiche rappresentano ormai da decenni un elemento costante delle nostre vite, tanto che diversi ricercatori sono arrivati a definire la nostra come l’epoca della “Plastisfera”.
Ma qual è il reale impatto della produzione di plastica sulla salute dell’uomo e dell’ambiente? Quali le possibili soluzioni ed alternative? Partiamo con il dire che la parola plastica è estremamente generica. Per fare un po’ di chiarezza possiamo classificare le plastiche secondo due diversi criteri, partendo cioè dal loro inizio (da cosa viene prodotta) e dalla loro (possibile) fine (quanto tempo ci mette a degradarsi).
La plastica può essere prodotta a partire da materiale non rinnovabile come il petrolio, oppure rinnovabile, quale ad esempio la biomassa di vegetali o i materiali organici di scarto.
La fine delle plastiche, ovvero il loro possibile destino e impatto ambientale, è determinata invece dalla degradabilità. Considerando la scala temporale umana il polietilene e il polipropilene, ovvero le plastiche maggiormente sintetizzate a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, sono da considerarsi non degradabili: gli agenti abiotici (sole, vento, pioggia) o biotici (batteri, funghi, piante) riescono a ridurre del meno del 10% la massa questi materiali, che tuttavia si sminuzzano in particelle sempre più piccole (le cosiddette microplastiche) e sempre più facilmente ingeribili dagli animali e quindi dall’uomo. Se uniamo la scarsissima degradabilità di questi composti al fatto che la loro produzione è in constante ascesa da decenni abbiamo una sola risultante: l’accumulo costante, ben esemplificato dalla formazione negli oceani di isole di plastica grandi come mezzi continenti.
Una soluzione potrebbe arrivare dalle bio-plastiche, che però non sono tutte uguali.
C’è il bio-polietilene, ovvero il polietilene prodotto a partire da risorse rinnovabili quali bietola, canna da zucchero o grano. Negli ultimi anni la sua produzione è in forte crescita: tuttavia, nonostante l’accattivante prefisso “bio”, si tratta di un prodotto non degradabile, esattamente come il polietilene derivato dal petrolio.
Vi sono poi le plastiche da materia prima rinnovabile e degradabile, come il MaterBi, utilizzato nella produzione di sacchetti per la spesa e ottenuto a partire da amido di mais. L’impatto ambientale è sensibilmente minore ma, come nel caso del bio-polietilene, la domanda da porsi è: quanto è sostenibile ed etico coltivare (ovvero sfruttare superficie arabile) per produrre materiali anziché cibo?
Una soluzione in tal senso potrebbe essere rappresentata dai poliidrossialcanoati (PHA), plastiche prodotte dai microorganismi a partire da svariati substrati organici, inclusa la frazione organica dei rifiuti solidi urbani: un maggiore sfruttamento commerciale di queste bioplastiche microbiche sarebbe una reale applicazione dei principi dell’economia circolare.
E per quanto riguarda le plastiche non degradabili? Partendo dall’assunto che risultano ancora indispensabili per molte applicazioni e che andrebbero usate meno e meglio, qualcosa forse si potrà fare anche nel campo della possibile degradazione. La facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali dell’Università Cattolica è coinvolta nel progetto Microplast, finanziato dalla Fondazione Cariplo e finalizzato alla comprensione dei meccanismi di degradazione del polietilene da parte dei batteri. In una discarica abbandonata da oltre trent’anni abbiamo recuperato diversi campioni di plastica, dai quali abbiamo isolato più di 70 ceppi batterici in grado di crescere utilizzando il polietilene come unica fonte di carbonio, e selezionato quindi tra questi i 10 migliori ceppi. Su questi ceppi sono in corso analisi del loro genoma e opportuni esperimenti di espressione genica: l’obiettivo è quello di delucidare i meccanismi ancora sconosciuti di degradazione microbica per poterli potenzialmente sfruttare in futuro.
Insomma, nell’epoca della Plastisfera, è la ricerca a esplorare soluzioni: dalla plastica che nasce dai rifiuti organici fino, ai batteri che “mangiano” la plastica che non si deteriora.
* Edoardo Puglisi insegna Biologia dei microorganismi e Tecniche biomolecolari alla sede di Piacenza dell’Università Cattolica. Da anni si occupa dei meccanismi microbici di degradazione degli inquinanti ambientali e dello studio dell’ecologia microbica di suoli ed alimenti