di Elena Federica Salomoni *

Il mio viaggio in Ecuador è iniziato il 23 luglio 2017. Era una domenica. Dopo essere arrivata all'aeroporto di Milano Malpensa, ho preso il volo per Atlanta (USA). Da qui il volo per Quito.
All'arrivo in aeroporto sono stata accolta da Marcel, uno dei membri World Endeavors, che mi avrebbe accompagnata presso la mia host family. Ho subito iniziato a parlare un poco di spagnolo con lui e, grazie anche a qualche gesto, siamo riusciti ad intenderci.

Appena arrivata a Quito ho potuto ammirare dal finestrino le immense montagne che la circondano. Era notte: sembrava lo scenario di un presepe. Un’emozione mozzafiato. La mia prima destinazione è stata la Fundación Bolívar Educación, la scuola dove avrei seguito il corso di lingua spagnola.

Solo la mattina seguente mi sarei resa conto che la casa era molto spaziosa e bella, e ospitava diversi volontari, provenienti soprattutto da Stati Uniti e Germania. Che gruppo! Insieme con Ginevra e Nina, ho conosciuto Sebastián, un coordinatore della Fundación Bolívar Educación, che ci ha mostrato la zona, oltre a fornirci preziosissimi e utili consigli. Ci ha messo in guardia sul fatto che la città è pericolosa, quindi ci ha avvertite di “tener cuidado” e di girare sempre con molta prudenza.

Al pomeriggio ho invece incontrato la mia nuova insegnante di spagnolo, presso la Fundación Bolívar Educación. Adriana ha quarant’anni ma non li dimostra affatto ed è matta come una ragazzina ribelle. Mi piace molto il suo modo di fare: è spiritosa, arguta e molto simpatica: tra le varie spiegazioni delle regole grammaticali infila ogni tanto qualche aneddoto “muy chistoso” e mi sprona tantissimo a parlare per praticare la lingua. Con lei imparare lo spagnolo è molto divertente, quindi si apprende velocemente e senza troppa fatica.

Il giorno seguente, Sebastián mi ha accompagnata sul luogo di lavoro, ossia il centro infantile Aldeas Infantiles S.O.S., situato nella zona de El Tejar, nella periferia di Quito. Ci siamo andati con i bus pubblici: la cosa pazzesca è che non esistono orari predefiniti e gli autisti guidano in modo spericolato, senza curarsi più di tanto delle regole della strada. Molto spesso gli autobus sono colmi di persone ed è difficile trovare posto per sedersi: rimanendo in piedi, più di una volta ho rischiato di perdere l’equilibrio sul bus, ma anche questo fa parte dell’avventura!

Giunti alla fermata El Tejar, siamo scesi dal bus e abbiamo percorso una lunga strada tutta a tornanti, in salita, per raggiungere il centro infantile. Durante il tragitto a piedi mi sono potuta rendere conto del vasto degrado che pervade e caratterizza quest’area: la zona è povera, molto sporca, pericolosa, oltre che difficile da raggiungere.

Il centro infantile Aldeas Infantiles S.O.S. si trova infatti in cima alla collina (vi è un punto da cui si vede bene la collina de El Panecillo, sulla quale si trova la statua della Vergine). Ogni giorno, quando arrivo la mattina presto, la zona sembra sempre disabitata, quasi una piccola città-fantasma: incontro solo la solita vecchietta che siede sull'uscio della porta della sua abitazione – la quale ogni mattina mi saluta con un timido e cordiale “buenos días” –, così come i soliti quattro cani randagi – smilzi ed affamati, costantemente alla ricerca di cibo – che ormai ho imparato a riconoscere.

È sorprendente come in mezzo al degrado possa esistere – e sopravvivere – un piccolo paradiso, un’isoletta felice dove sentirsi protetti e al sicuro: il centro infantile, questo locus amoenus, ospita una quarantina di bambini, da zero a otto anni, provenienti da famiglie povere. Qui i bambini possono giocare, ma anche istruirsi attraverso molteplici attività, garantirsi un pasto caldo e una merenda a metà mattinata, attività per lo svolgimento delle quali ho fornito il mio supporto. In particolare, mi sono occupata di accudire i bambini più piccoli, fino a uno/due anni di età.

Quando sono arrivata nella loro classe il primo giorno, ricordo che mi guardavano tutti incuriositi con i loro occhi scurissimi e profondi, nascosti da ciglia nere e lunghissime, quasi a interrogarsi su identità ed origini della nuova venuta. Piano piano, giorno dopo giorno, hanno imparato a conoscermi e a fidarsi di me, così come a darmi ascolto. Ciò che mi ha colpita maggiormente è stata la loro dolcezza, ma anche la loro vivacità e voglia di scoprire il mondo circostante, di esplorarlo.

Nell'ora della ricreazione ho conosciuto anche alcuni dei bambini più grandi, tra i sette e gli otto anni di età. Erano molto curiosi di sapere il mio nome, quello dei miei genitori, così come di avere notizie sul mio paese d’origine, l’Italia. Si divertivano un mondo quando mi mettevo a rincorrerli per prenderli e di tanto in tanto, girandosi e ridendo, urlavano forte nella mia direzione: "itú no me cogesi” (non mi prendi!) come fosse un ritornello.

Vedere i bambini felici con così poco, riuscire a percepire la loro spensieratezza e spontaneità mi ha dato un’emozione bellissima e profondissima: sentivo il cuore leggerissimo e la mente che veniva inondata da lontani ricordi d’infanzia. Ed è quello che porto con me.

* 26 anni, di Saronno, corso di laurea magistrale in Economia e legislazione d’impresa, facoltà di Economia, campus di Milano