di Maria Chiara Barra *
Sveglia alle cinque del mattino, tutti i giorni. È presto, fa freddino, ma è la sveglia più piacevole che potesse mai capitarmi. L’unica sveglia che mi fa alzare con la voglia di vivere un’altra giornata intensa, piena di emozioni: si tratta delle voci arzille e allegre dei bambini dell’Orphelinat Catholique di Fianarantsoa, in Madagascar, dove, grazie al Charity Work Program, ho trascorso uno dei mesi più belli della mia vita.
È il secondo orfanotrofio più grande di tutta l’Africa, mi hanno spiegato, e ci vivono 200 bambini e ragazzi, di tutte le età. C’è chi non ha che poche settimane e chi ha ormai vent’anni, e che oggi può studiare e lavorare grazie al preziosissimo lavoro che ogni giorno le suore malgasce svolgono per i loro ragazzi, mettendosi completamente al loro servizio. Sono tutte mamme, queste suore. Mamme di ragazzi e ragazze diversissimi, con storie incredibilmente tristi, ma diventati un giorno tutti fratelli e sorelle. Alcuni non hanno proprio nessuno, non si sa da dove vengano, se abbiano, da qualche parte del mondo, una famiglia o qualcuno che ancora li ricordi. Altri vivono lì perché i propri parenti non possono prendersi cura di loro, poiché vivono troppo lontano o perché non hanno alcun mezzo economico per farli crescere.
Ma nessuno è da solo all’Orphelinat. I bambini sono divisi per gruppi in base alla loro età e giocano assieme. Ho assaporato ogni secondo della commozione che provano i bambini nel rendersi conto di essere davvero amati. Così come ho condiviso la gioia delle suore che li amano come fossero loro figli. Ogni bambino o bambina qui è speciale, è unico. Le suore conoscono a memoria le loro caratteristiche, i loro gusti, le loro passioni. Col pugno di ferro li disciplinano e con tutto l’affetto del mondo li amano e li crescono.
Appena sveglia, esco dalla mia stanza e attraverso il cortile per andare a fare colazione con le suore. Nemmeno io sono mai sola. Non faccio in tempo a chiudere la porta dietro di me che Jean-Marie mi si appende al braccio, Enrico mi salta sulla schiena, Herman spalanca le sue braccine e i suoi grandi occhi scuri e mi corre incontro, Antonio mi afferra la mano in un gesto silenzioso e delicato, fissandomi con uno sguardo pieno di affetto, mentre Meltine e Nirina si dividono le dita dell’altra mano, che ancora è rimasta libera, e la stringono assieme.
Cominciamo a camminare, siamo lenti, goffi, ridiamo, sbandiamo; io cammino per sei, per sette, per dieci!, perché si appendono tutti su di me e io mi diverto a trasportarli giocosamente per il giardino. Attraversandolo, da lontano sento gridare il mio nome, da più parti: “Chiara! Chiara!”. Mi giro ovunque, con un sorriso spontaneo, naturale, così bello e genuino. Non mi sembra un sorriso mio: mi sembra un regalo, un dono prezioso che ricevo ogni giorno dagli sguardi di questi bambini, che mi stringono sempre più forte e, correndomi incontro, si uniscono agli altri per accompagnarmi a fare colazione.
Quando giungiamo alla sala da pranzo siamo uno squadrone rumoroso e divertito. Mi ci vogliono almeno dieci minuti per salutarli tutti, non si vogliono separare, ma li convince la promessa che appena avrò finito, giocheremo assieme. Succede la stessa cosa quando, ogni giorno, alle 11.30 e alle 17.30 vado a dare da mangiare ai neonati, che dormono o piangono fra le braccia di donne malgasce che danno una mano alle suore e che stanno sedute su delle stuoie di una stanza calda e accogliente. Grazie a loro, ho imparato a interpretare i gesti e i pianti di un neonato, a cambiare uno dei complicatissimi pannolini che hanno in uso lì e a far addormentare quelle creature così piccole e così indifese.
Ma i momenti più emozionanti li ho vissuti la sera, quando i pré-maternelles si accingono a infilarsi sotto le coperte dei loro piccolissimi lettini e corrono gridando come matti per scappare da me, che li inseguo fingendo di essere un leone che li vuole mangiare. Catturatone uno, gli faccio il solletico, lo bacio e lo metto nel suo lettino. E via ad inseguirne un altro, fra le loro urla divertite.
Quando i bimbi e i ragazzi sono tutti a letto, vado nella mia stanza, dove mi raccolgo un momento per rivivere nel ricordo la mia giornata. Vorrei assaporare il silenzio del cielo e delle stelle africane, ma nella mia testa risuonano le vivaci vocine dei bambini, che mi insegnano a contare in malgascio, a danzare, a cantare. Mi insegnano a vedere la felicità ovunque, in ogni sguardo, in ogni cosa. Una felicità che io, pur avendo tutto ciò che potessi mai desiderare nella mia vita, non ho mai posseduto davvero. Loro non hanno niente, giocano con le cortecce degli alberi o con i tappi di bottiglia, indossano la stessa maglietta per una settimana intera, eppure sono felici. Felici davvero.
Sono partita per il Madagascar pensando di portare qualcosa a questi bambini e ragazzi. Invece sono tornata in Italia piena di regali, di oggettini che mi hanno donato, di canzoni, di filastrocche, di sorrisi ed emozioni. Chi non ha niente, ha dato tutto a me, semplice studentessa venticinquenne. Vado a letto in preda a un’eccitazione strana; fatico ad addormentarmi perché questo sentimento pervade tutta me stessa: è la consapevolezza di essere nel posto giusto, di vivere pienamente l’amore… è la felicità, quella vera.
* 25 anni, di Novate Milanese, secondo anno laurea magistrale in Esperto linguistico per le Relazioni internazionali, facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, campus di Milano