«Dimenticare Olivetti. […] L’Ingegnere ci era arrivato molto prima di tutti gli altri: il benessere dei lavoratori non è un accessorio per la vita dell’impresa, ma elemento imprescindibile per tenere in buona forma il clima aziendale. Così i lavoratori sono più contenti e l’azienda produce meglio e di più. Ma allora, perché dobbiamo dimenticare Olivetti?» Inizia così il nuovo libro di Luca Pesenti, docente di Sociologia generale dell’Università Cattolica di Milano, intitolato Il welfare in azienda. Imprese smart e benessere dei lavoratori (Vita e Pensiero).

Da dove nasce l’idea del libro? Di solito mi occupo di welfare pubblico, materia piuttosto deprimente negli ultimi anni. Analizzando i dati però mi sono però accorto che il welfare privato, argomento che ha impegnato alcuni studiosi di ottimi manuali, non era ancora stato oggetto di una analisi più divulgativa. Essendo un campo molto dinamico, che ha tanto da raccontare, mi sono deciso ad analizzarlo con lo scopo di spiegarlo non solo alle aziende, a chi lavora nelle risorse umane, ma anche ai lavoratori, ai sindacati, ai più giovani, a chi vuole essere informato su un argomento che riguarda tutti. Fare cultura del welfare è diventato necessario.

L’incipit del libro, come abbiamo visto, è molto netto e provocatorio «dimenticare Olivetti». Ma in che senso lo scrive? In Italia (dal punto di vista empirico naturalmente, non ideologico) si vede che la profezia olivettiana della fabbrica a misura di chi ci lavora, che si è incarnata nell’ultimo decennio in pratiche di responsabilità sociale d’impresa in una ristretta cerchia di grandi imprese, sta diventando altro, grazie anche a una legislazione che è diventata più liberalizzante. Non è più un problema di imprenditore illuminato, che rimane una rarità, ma è ormai un problema che riguarda la logica dell’organizzazione delle risorse umane perché si è capito che il welfare aziendale fa bene a tutti: all’azienda, ai lavoratori, alle relazioni industriali.

Il libro di Luca Pesenti sul Welfare in aziendaIn che modo fa bene a tutti? Un piano di welfare efficace è oggettivamente utile e lo dimostro con diversi dati citati nel libro; ma attenzione, non come verniciata sociale spendibile per il marketing e la comunicazione, ma perché serve ad attrarre talenti in un momento in cui le aziende non hanno la leva di una retribuzione economica elevata, in più è una “leva” defiscalizzata. Serve inoltre a trattenere i lavoratori per evitare che i migliori se ne vadano se tentati da altre offerte ed è infine un toccasana per le relazioni aziendali, migliora il clima di lavoro e quindi il rendimento.

E quello che lei chiama “valore condiviso”? Si, lo shared value teorizzato da Michael Porter e Mark Kramer nel 2011, fa parte della terza fase del welfare, quella della maturità, che esce dal senso di un’azienda paternalista o che deve farsi perdonare qualcosa. “Condiviso” vuol dire che tutti i soggetti della filiera lavorativa traggono beneficio dal piano di welfare, alla pari. Al beneficio si associa una sfida che comporta qualche rischio, come sempre quando ci si mette in gioco.

Come si costruisce un piano di welfare efficace? In vari modi: affidandosi a dei consulenti esterni oppure utilizzando provider di servizi, società di consulenza. Si può partire anche dall’interno, ma è necessario avere una struttura in grado di fare un’efficace e corretta analisi dei bisogni dei lavoratori. Se si compiono degli errori nella fase di ascolto il piano può diventare un boomerang. Bisogna ascoltarli, una cosa “semplice”, che chiede però una certa dose di umiltà dei quadri dirigenti e una visione che travalichi il modello classico gerarchico e la capacità di rischiare. Le aziende spesso temono di solleticare bisogni che non possono essere colmati e di creare quindi malessere o onde polemiche, ma come dicevo il rischio è l’altro lato della medaglia. Se non si ascoltano i bisogni inoltre si rischia di spendere in servizi che poi falliscono. Ad esempio asili aziendali, pensati per la conciliazione famiglia-lavoro, che rimangono vuoti perché magari molto sono dipendenti fuori sede e preferiscono non portare i bambini in treno per un ora, ecc. Altra fase fondamentale per un piano efficace è la condivisione: il piano deve essere comunicato in maniera chiara ai lavoratori, soprattutto ai più giovani che sono quelli che lo usano meno.

Come mai? Da un lato per motivi di età: non hanno ancora famiglia e sono meno attenti a certe questioni, sebbene i piani sanitari, pensionistici, la possibilità di avere sconti sui trasporti, ecc. riguardino tutti. In molte fasi di rilevamento dei bisogni scelgono spesso la palestra come esigenza primaria, più di altre cose. Credo che, in generale, culturalmente siano meno abituati a pensare di avere dei diritti in azienda che possono essere esigibili anche attraverso il piano welfare. Per questo il mio libro si rivolge anche ai più giovani, per fare in modo che si riapproprino dei propri diritti.

La sfida del welfare chi riguarda? La partita più importante in questo momento si gioca soprattutto nella relazione tra imprese e sindacato. Certo questo presuppone uno sforzo da parte del sindacato, anche nel raggiungere i più giovani, sempre meno coinvolti. Ad oggi però le aziende tendono a rimanere indipendenti nella fase di elaborazione del welfare, mentre i sindacati non sono ancora preparati sul tema o non sono interessati, con le dovute differenze.

Perché è importante il ruolo dei sindacati? Possono aggregare i bisogni facendo emergere ciò che conta di più per i dipendenti e fungere da portavoce e da via di comunicazione del piano welfare. Tuttavia molti preferiscono i “pochi, maledetti e subito” in busta paga piuttosto che una conversione del premio di produttività in termini di welfare. La Cisl, che storicamente ha un rapporto forte con i luoghi di lavoro, si è mostrata più attenta su questi aspetti, rispetto alla Cgil per esempio. In generale però, mentre i vertici dei sindacati sono più sensibili al tema welfare, i delegati sono meno informati o restii ad accettare l’idea della conversione.

Quali sono le novità per le aziende, dal punto di vista del welfare, secondo la Legge di Stabilità 2016? In termini macro l’allargamento delle materie contrattabili, quelle per un contratto di secondo livello, come ad esempio la questione conciliazione famiglia-lavoro o long term care, e l’allargamento dei limiti massimi di stipendio a cui è applicabile la normativa. Oggi si è arrivati a 80 mila euro di stipendio con la conversione del premio di risultato in welfare. Così il piano si allarga ai quadri e a una prima fascia di dirigenza. Anche la quota di salario variabile è cresciuta.

Quali invece i temi su cui sono più sensibili i lavoratori oggi? Perché non cambiano solo le aziende e i mercati, ma anche il tipo di servizi richiesti per il welfare sono in una nuova fase. La conciliazione famiglia-lavoro e il long-term care, cioè badanti e sostegno alla cura di persone anziane, un problema attualissimo per una società che come la nostra tende all’invecchiamento. Un problema tra l’latro che le aziende dovrebbero porsi non a livello di mercato ma prima: a una azienda conviene avere una platea di dipendenti che invecchia senza un ricambio generazionale? Conviene avere una società che invecchia? Le analisi dicono di no, come altri colleghi in Università, come Rosina. Aiutare i genitori a conciliare famiglia-lavoro stimolerebbe anche il numero di nascite, a pensare a un secondo figlio piuttosto che fermarsi; perché il problema è anche questo, l’emergenza demografica è passare da uno a due figli.